"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

martedì 28 ottobre 2014

LO HOBBIT.LA DESOLAZIONE DI SMAUG (di P. Jackson, 2013)

Il viaggio inaspettato di Bilbo con i 13 nani capitanati da Thorin Scudodiquercia, riprende.
Lasciata l'atmosfera più leggera del primo capitolo, il cammino dei nostri continua in maniera più cupa. Bilbo inizia ad intuire il potenziale dell'anello, ma da esso è soggiogato. Il fiero Thorin, da parte sua, mostra il suo lato oscuro dominato da un'infida avidità che lo accomuna al suo potente rivale ed usurpatore del trono Smaug, l'immenso drago dormiente. L'avidità è infatti il tema principale del film. Avidità che coinvolge i protagonisti (Bilbo compreso) rendendoli ciechi e pronti a sacrificare chiunque si metta tra loro e il tesoro.
Peter Jackson prosegue il suo personale adattamento del romanzo Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien producendo un sequel che presenta gli stessi pregi e difetti del primo capitolo. La prima cosa che salta all'occhio è la lunghezza. Ancora una volta il regista realizza una pellicola di ben due ore e quaranta dove l'attesa del momento più alto (l'incontro con il drago Smaug) è fortemente dilata, e a tratti indispone un po' lo spettatore. Decisamente pedanti i continui rimandi alla “vecchia” trilogia. E' risaputo che Jackson, per adattare un libretto di poco più di 300 pagine con tre film di quasi tre ore l'uno, ha introdotto personaggi e situazioni non presenti nel romanzo. A questo si aggiungono rimandi, allusioni ai suoi precedenti lavori che mettono un po' a dura prova la pazienza dello spettatore. Il personaggio totalmente inventato di Tauriel, l'elfo silvano al servizio di Re Thranduil, sovrano di Bosco Atro, è pretesto per una fugace storia d'amore tra lei e il giovane nano Kili. Passione che però non può non ricordare quella già vista tra Arwen e Aragorn. Forzato anche il ritorno di Legolas ( un Orlando Bloom la cui mascella squadrata tradisce il fatto che tra la due trilogie son passati ben dodici anni! ), che da Tauriel è affascinato.
Fin qui i difetti, ma i pregi? Beh....Jackson e la talentuosa squadra della Weta Digital sanno, anche in questo caso, farsi perdonare; con scenari visivamente perfetti, scene d'azione mozzafiato e personaggi che non si dimenticano.
La sequenza che vede i nostri persi, disorientati nel Bosco Atro rappresenta forse la parte più cupa del film, con l'attacco dei ragni giganti (qualcuno al cinema sarà sicuramente saltato sulla poltrona!) e l'abisso profondo in cui Bilbo inciampa.
Molto divertente la fuga dei nani dalle prigioni elfiche all'interno di alcuni barili lanciati giù nel fiume tra le rapide. Fuga resa ancora più dura dall'attacco degli orchi, a loro volta disturbati dall'esercito degli elfi.
E infine lui...il drago Smaug. Splendido il suo svelamento dallo sconfinato oceano di oro e gemme. Un drago realizzato in motion capture che ha le espressioni e la voce profonda di Benedict Cumberbatch (quella italiana è di Luca Ward ), lo Sherlock dell'omonimo serial TV. Set che condivide proprio con Martin Freeman (qui Bilbo, là Watson). Il pregio di Smaug è che non ricorda nessun altro drago sullo schermo. Più simile forse ad una creatura di Jurassic Park, ci riporta subito nel mondo del fantastico con quel petto che si accende di rosso prima di sputare fuoco.
Oltre a Smaug, tra i nuovi personaggi spicca Bard (interpretato da Luke Evans- prossimo Vlad III di Valacchia in Dracula Untold e probabile futuro Eric Draven nel remake de Il Corvo), contrabbandiere di Pontelagolungo dal passato oscuro, che prima presterà aiuto alla compagnia di nani e poi si opporrà alla loro impresa. La sua è una presenza di peso che avrà un ruolo centrale nel prossimo capitolo. Al contrario dell'elfo Tauriel (interpretata dall'ex Lost, Evangeline Lily), personaggio apparso fin troppo superficiale.
Divertente infine il cammeo di Stephen Fry, crapulone governatore di Pontelagolungo.
Insomma, anche sta volta, nonostante lo sforzo di pazienza, ne vale la pena. E il regista (non pago!) ce ne chiede ancora un po'. Manca infatti l'ultimo capitolo: Lo Hobbit. La Battaglia delle cinque armate. L'appuntamento è per il prossimo 17 Dicembre.
Ancora un ultimo sforzo poi....è finita!
Forse. 




lunedì 13 ottobre 2014

GRAVITY (di A. Cuarón, 2013)

Nello spazio non c'è nulla che trasporti il suono. Lassù, a circa 600 km dalla Terra, il silenzio regna sovrano. E in quella quiete, sospesi, gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky si godono un panorama unico. E' una situazione alla quale ci si potrebbe abituare, pensa la Dottoressa Stone, ingegnere biomedico in prestito alla NASA, con il compito di intervenire nella manutenzione del telescopio Hubble. Ad accompagnarla nella missione il comandante Kowalsky alla sua ultima passeggiata spaziale. All'esterno dello Shuttle, mentre stanno per ultimare il lavoro, una pioggia di detriti causata dalla collisione tra un satellite e un missile, travolge i due astronauti e danneggia gravemente lo Shuttle. L'equipaggio all'interno non sopravvive mentre Stone e Kowalsky restano soli alla deriva, senza poter nemmeno comunicare con la base di Houston. Ciò che segue sarà una disperata lotta per la sopravvivenza in uno dei luoghi più ostili che esistano.
La miglior fantascienza anni '70 incontra lo sci-fi degli anni 2000 creando un film unico nel suo genere. Il regista messicano Alfonso Cuarón mescola la filosofia di 2001 Odissea nello spazio con gli scenari spettacolari di Apollo13 realizzando una storia epica, tipicamente americana che non offre nulla di nuovo allo spettatore se non una mise en scène per nulla scontata e super efficace nel catturare l'attenzione.
Il film si apre con un lunghissimo piano sequenza della durata di ben 19 minuti. Prosegue poi con scene molto lunghe, dove il montaggio è appena percettibile. Questo permette di tenere lo spettatore totalmente incollato allo schermo. Egli non viene distratto ma interamente inglobato in un perpetuo movimento che gli consente di vivere emozioni, sensazioni e respiri della protagonista femminile, la Dottoressa Ryan Stone. Spesso sembra di essere con lei nelle tuta da astronauta.
Molto interessante anche il lavoro fatto sul sonoro. Nelle scene dove ci si aspetterebbe forti e fragorose esplosioni di suoni metallici, si viene invece colpiti da un “sonoro” silenzio, il silenzio tipico, quasi ovattato, dello spazio. Per tutta la durata della pellicola il regista gioca con il contrasto rumore/silenzio. La quiete prima piacevole si trasforma in un inquietante compagno di viaggio. I suoni terrestri (voci, musica, rumori), che prima sembravano disturbare la vista magnifica del Pianeta Blu, diventano poi fonte di conforto per chi, lassù, sta disperatamente cercando di tornare a casa.
Più efficace la prima parte delle seconda (separazione sottolineata dalla rinascita, fisica e spirituale, della protagonista - suggestiva la scena in cui Ryan, all'interno della navetta, si rannicchia in posizione fetale-) il film corre veloce verso il finale ( dura appena un'ora e mezza) inciampando però un po' nel retorico. Si esagera nell'ultima parte, inficiando la sospensione dell'incredulità dello spettatore che fino a quel momento era totalmente coinvolto nella vicenda. Il rischio era dietro l'angolo, ma è un peccato che si può perdonare.
Realizzato per l'80% in computer grafica ( quattro anni di lavorazione), il film vede un cast di appena sei elementi (di cui tre solo voce). Nei panni dei protagonisti George Clooney (il comandante Matt Kowalsky) e Sandra Bullock (Dottoressa Ryan Stone). La fisicità e il look della Bullock ricordano quelli di Ellen Ripley, protagonista della saga di Alien (quasi un must per qualsiasi regista voglia approcciarsi alla fantascienza). La tristezza dei suoi occhi (ha perso una figlia) si scontra con il chiacchiericcio spiritoso di Kowalsky, un George Clooney sempre efficace nell'alleggerire l'atmosfera, e qui forza motivatrice per la Dottoressa a non mollare.
All'ultima edizione dei premi Oscar, Gravity si è aggiudicato ben 7 statuette. Oltre alle evidenti qualità tecniche, è stata premiata la regia di Alfonso Cuarón. Al suo ottavo lungometraggio, il regista messicano ottiene quel riconoscimento che forse avrebbe meritato già con I figli degli uomini; altro sci-fi (questa volta distopico) la cui forza non era tanto nella tecnica ma bensì nella sceneggiatura, firmata dallo stesso Cuarón. Una pellicola con un ritmo ben diverso (lento e meno coinvolgente), ma che non può passare inosservata. 
Lo stesso vale per Gravity. Al contrario di quanto pensano in molti, la fantascienza al cinema non è ancora morta.