"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

domenica 3 marzo 2013

LOOPER (di R. Johnson, 2013)



2044, Kansas. “Il viaggio nel tempo non esiste ancora. Ma da qui a trent’anni lo inventeranno.” Queste le intriganti parole che aprono quest’originale pellicola. E le immagini che le precedono, non lo sono da meno.
Un giovane killer attende pazientemente davanti a sé la sua vittima. Tra le mani, oltre ad un grosso fucile, un orologio da tasca che con il suo ticchettio scandisce la sua attesa. Ed ecco che la vittima, incappucciata, compare dal nulla proprio su quel telo bianco che, appena un’istante prima, era vuoto. Il ragazzo spara senza esitazione e riscuote la sua ricompensa di lingotti d’argento appositamente preparati ed agganciati alla schiena del defunto.
Joe (Joseph Gordon-Levitt) è un killer il cui compito è giustiziare i criminali del futuro spenditi indietro dal 2074, anno in cui i viaggi nel tempo sono una realtà ma illegali. Per questo motivo sono sfruttati dalla criminalità, che se ne serve per disfarsi dei cadaveri, impossibili da occultare in un futuro dove chiunque è controllato da un microchip. Joe è parte di un’ organizzazione di sicari chiamati “looper”, i cui “loop” (cerchi, anelli) si chiuderanno ne momento in cui giustizieranno loro stessi, trent’anni più vecchi. A nessuno è permesso lasciarsi sfuggire il proprio “loop”. Ma quando Joe incrocerà lo sguardo con il sé stesso futuro (Bruce Willis), comparso di fronte a lui con il volto scoperto, sbigottimento e conseguente esitazione saranno inevitabili.
Il miglior cinema di fantascienza dai risvolti filosofici si mescola all' action-thriller creando un film intelligente e sofisticato, in grado di incollare lo spettatore allo schermo dall’inizio alla fine. Il giovane regista indipendente Rian Johnson, alla sua terza regia, costruisce una storia  a d’incastro complessa, proponendo la sua personale rielaborazione di uno dei temi tra i più saccheggiati dalla fantascienza: il viaggio nel tempo. Se i riferimenti cinematografici sono molti ( l’atmosfera cupa di Blade Runner, la narrazione a livelli di Nolan, la filosofia dei Wachowski, e soprattutto gli interrogativi posti, seppur in maniera più leggera, da Ritorno al Futuro), Johnson sa mascherare bene le sue fonti e realizza un opera che non ha il retrogusto del già visto.
Mentre dubbi e interrogativi su implicazioni e conseguenze che provocherebbero un’alterazione degli eventi  invadono le menti di protagonisti (costretti a fare i conti con sé stessi) e spettatori, il film procede sicuro e, come il meccanismo perfetto di un orologio, scandisce il tempo di una storia complessa ma dei quali eventi si intersecano perfettamente. I due grandi “loop”, i due anelli, che costituiscono la struttura del racconto combaciano in un punto preciso. Un punto che è al contempo chiusura e ripartenza e da dove ha origine un “infinito” la cui direzione è determinata solo dalle scelte prese.
L’azione si svolge nelle prima parte in uno spazio urbano. Una città (come in molti film di fantascienza) senza innovazioni iper-tecnologiche, ma dove pervade un forte degrado che coinvolge anche il mondo della droga, assunta attraverso gli occhi con un contagocce. Dall’area metropolitana, la vicenda si sposta poi in campagna e assume una dimensione più intimista, senza mai scordarsi però della tensione che, fino allo spettacolare e terrificante finale, non molla la presa.
Joseph Gordon-Levitt, uno dei miglior attori della sua generazione, si cala bene nei panni di un eroe spietato, indurito nell’anima (ma anche nei lineamenti, alterati per farlo assomigliare al “vecchio Joe”, Bruce Willis) da un mondo corrotto e da una vita di solitudine.
Bruce Willis, d’altro canto, mette in gioco la sua esperienza di "action-hero" al sevizio di un’interpretazione più matura e sentita. La sua massiccia presenza regala quel tocco vintage che, in un film dove si parla di viaggi nel tempo, davvero non guasta.
A colorare con un tocco di rosa questa pellicola, la sempre più brava Emily Blunt, madre coraggio, divisa tra amore incondizionato e paura paralizzante del proprio stesso figlio. Un bimbo dallo sguardo diabolico (interpretato da Pierce Gagnon), tra i più inquietanti degli ultimi anni.
Di peso, seppur di contorno, le prove di Paul Dano e Jeff Daniels (in particolare Dano, a mio modesto parere, avrebbe meritato più spazio).
Dopo Take Shelter e Cloud Atlas un altro gioiello di rara originalità dunque, che merita solo di essere visto.




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