"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

mercoledì 14 dicembre 2011

NON LASCIARMI (di M. Romanek, 2011)


Kathy, Tommy e Ruth. Tre nomi senza cognomi; tre volti senza emozioni; tre corpi senz'anima. Questo quello che dovevano essere per chi li aveva creati; e questo ci si aspettava da loro. Perché loro sono “speciali”.
Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro (considerato dal Times il migliore romanzo del 2005), il film racconta la storia di tre studenti del collegio inglese Hailsham. e della loro amicizia. Cresciuti in un rigido istituto tipico della “old England”, i tre ragazzi vivono apparentemente sereni e protetti. La rivelazione di un'istitutrice sul loro destino sconvolgerà per sempre il loro stretto legame ma non li porterà mai ad una completa ribellione a quella vita che era stata predisposta per loro.
Tutto nell'opera del regista Mark Romanek (autore di famosi videoclip per star del calibro di Madonna, Michael Jackson e Coldplay) sottolinea la negazione dell'identità e l'accettazione del proprio destino. Il personaggio che incarna di più tutto questo è quello di Kathy. Rassegnata all'idea di non poter amare Tommy, diventato compagno di Ruth, da adulta abbraccerà il proprio fato impegnandosi come assistente prima di passare all'ultima fase come donatrice. A differenza sua Tommy e Ruth manifesteranno un leggero segnale di ribellione ( Tommy con l'arte del disegno e Ruth legandosi sentimentalmente allo stesso Tommy privandolo dell'amore di Kathy); ma capiranno ben presto che i loro tentativi saranno vani. Con la scomparsa di Ruth anche Kathy assaporerà per un attimo il piacere della speranza. Ma quando questa si dissolverà definitivamente il suo grido di dolore non sarà lacerante come l'urlo di Tommy. Incapace di sperare, di sognare,di urlare la propria infelicità, Kathy avrà così vissuto a pieno la propria breve vita? Ovviamente no. Il suo è stato sì un grido silenzioso, soffocato, ma come gli altri profondo, doloroso, straziante. Come suggerisce il trailer, non si può fermare le emozioni, la speranza, l'amore, qualsiasi sia la vita predisposta per noi. Se Peter Weir nel suo splendido “The Truman Show”, ci mostrava l'impossibilità di controllare una vita richiudendola un mondo comunque sfacciatamente finto e claustrofobico, il mondo di Romanek ci appare invece possibile, una sorta di realtà parallela che potremmo già aver raggiunto. A questa tragedia si aggiunge l'incapacità dei protagonisti di portare avanti una rivolta che potrebbe salvarli. Sono immobili, lenti, come lo stesso ritmo della pellicola. Nonostante lo spettatore venga messo al corrente sin dall'inizio del destino dei ragazzi, questa dilatazione dei tempi lo accompagna in un viaggio sempre più doloroso. fino alla sofferta, inevitabile conclusione.
Questo lento dipanarsi della storia fa del film di Romanek un film intimista, profondo più vicino forse alla cinematografia orientale che a quella statunitense.
Ottima la prova dei giovani attori: Carey Mulligun ( novella Audry Hapburn in “ An Education”) nei panni della dolce Kathy; Andrew Garfield (prossimo Spiderman) in quelli del timido Tommy; Keira Knightley ( già Elizabeth Swan nella saga de “Pirati dei Caraibi”), un' androgina e tormentata Ruth. Glaciale infine Charlotte Rampling, interprete della rigida direttrice di Hailsham.
A fare da sfondo un' Inghilterra ancora più grigia e fredda ma senza tempo. Emblematica la barca arenata sulla spiaggia che non può salpare. Come essa non conosce la brezza del mare, i nostri protagonisti non conoscono la vita “normale” in quanto esseri “speciali” Kathy, Tommy e Ruth infatti, non sanno ordinare ad una tavola calda, non sanno giocare, non sanno vivere serenamente la propria sessualità perché tutto questo prevede piacere e provare piacere implica avere creatività. Chi li ha creati non si aspetta inventiva. E se anche essa viene manifestata (come l'arte nei disegni di Tommy), viene ridotta a mero oggetto di studio. Ma come per Truman in “The Truman Show”, l'anima e le emozioni non si possono rinchiudere e reprimere. Ed così che Kathy, ancora bambina, nonostante le alte e fredde mura di Hailsham, verrà raggiunta da una canzone che, per la prima volta, le scalderà il cuore e che dice: “Never let me go” (“Non lasciarmi”).

Guarda il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=T92u4y1aO6g



sabato 3 dicembre 2011

THIS MUST BE THE PLACE (di P. Sorrentino, 2011)



Oggi faremo un viaggio un po' diverso. Non andremo in paesi fantastici, non viaggeremo nel tempo ma l'itinerario sarà davvero speciale. Dalla verde Irlanda, voleremo in America per un percorso “on the road” i cui ingredienti principali saranno la memoria, la musica e la ricerca di sé.
Qualcosa mi ha disturbato. Non so esattamente cosa, ma mi ha disturbato”, ripete più volte Cheyenne, protagonista di questa toccante storia, originale nelle forma che qualcuno ha persino definito un UFO nel panorama cinematografico moderno.
Rockstar americana in pensione, Cheyenne ( interpretato da un bravissimo Sean Penn ) vive una vita tranquilla e appartata ma pervasa da un profondo disagio, a tal punto da confondere la noia con la depressione. Intrappolato in una condizione di eterno “bambino” (“Ecco perché non hai mai imparato a fumare”, gli rivela un'amica), nascosta dietro un look punk-rock anni '80 (un po' Robert Smith dei Cure, un po' Edward Mani di Forbice), il personaggio di Cheyenne è una maschera tragi-comica, che rasenta il limite della caricatura ma che non può lasciarci indifferenti. L'ex leader dei “The Fellows” sembra sempre “fuori tempo”. Si muove perennemente al rallentatore, appesantito anche da quel trolley che si porta sempre appresso, come una sorta di coperta di Linus.Un bagaglio pieno di ricordi approssimativi tipico di chi non riesce a vivere a pieno la propria vita.
Il ricordo più “generico” è quello legato al padre, con il quale non ha rapporti da trent'anni. Sarà proprio la morte di quest'ultimo a convincere Cheyenne a volare negli Stati Uniti ed ad intraprendere un viaggio attraverso la provincia americana per portare a termine la missione di una vita del padre ebreo: trovare la guardia nazista che ad Auschwitz lo aveva umiliato. Cheyenne entrerà così in contatto con la tragedia dell' Olocausto, che prima conosceva solo “in modo molto generico” (proprio come suo padre).
Il film può facilmente definirsi un “romanzo di formazione”, alla fine del quale il protagonista trova finalmente la sua dimensione, il suo “posto” nel mondo, seppure in modo inconsapevole. “Sono in New Mexico, mica in India”, risponderà infatti Cheyenne alla moglie che gli chiede se sta trovando sé stesso. Difficile però racchiudere in un unico genere un'opera che ad ogni scena, ad ogni quadro ci tocca dentro (ci "disturba") facendoci sorridere o commuovere per questo strano personaggio; questa rockstar triste che non sa seguire il "ritmo" delle vita.
Per non parlare poi della meraviglia di quegli spazi sconfinati tipici del paesaggio americano , della bellissima fotografia di Luca Bigazzi, e della splendida colonna sonora. Se c'è una cosa infatti che non si può dimenticare dopo la visione di questo film è proprio la musica. Scritta da David Byrne (che nel film fa un piccolo cameo nei panni di sé stesso ), leader dei Talking Heads e autore della canzone che dà il titolo al film ( ma anche della mitica “Psycho Killer”!), le sue note accompagnano il viaggio di Cheyenne sottolineandone movimenti ed emozioni e coinvolgendo totalmente lo spettatore. Sorrentino ha dichiarato di avere inserito nel film quella musica che ha amato durante l'adolescenza. E questo forse lo rende il film più personale del regista napoletano.
“Spensieratezza”, la parola preferita dal padre di Cheyenne, annotata nei suoi diari e connotata da una profonda nostalgia. Quella spensieratezza che si ha solo da ragazzi e che Sorrentino sembra ancora avere. Il regista, in un'intervista, ha infatti ammesso di non fare cinema seguendo dei calcoli ma abbandonandosi un po' all'incoscienza. Se il risultato sono opere coma questa, allora ben venga l'incoscienza. Quell'incoscienza che porta Cheyenne a fare un lungo viaggio per un padre che non conosceva; l'incoscienza che gli fa ammettere il proprio disagio (“disturbo”) di fronte alla vita, senza sapere il perché. Se film belli come questo devono per forza esistere in un posto, allora il loro deve essere l'incoscienza. This....must be the place.



venerdì 4 novembre 2011

LE AVVENTURE DI TINTIN. IL SEGRETO DELL'UNICORNO (di S. Spielberg, 2011)



Fan di Indiana Jones, unitevi! Se sentivate la mancanza di cappello, frusta e tesori nascosti, ora avete un'alternativa. Invece dell'inconfondibile “sagoma”, un simpatico ciuffetto rosso: quello del giovane reporter Tintin. Nato dalla matita del fumettista belga Hergé (alias Georges Prosper Remi), Tintin inizia le sue avventure nel 1929, diventando una delle strisce di maggior successo in Europa. Sconosciuto infatti nel “nuovo mondo”, il regista Steven Spielberg apprese della sua esistenza solo nel 1981, quando una giornalista franco-belga paragonò il protagonista de “I Predatori dell'arca perduta” proprio a Tintin. Da allora il giovane avventuriero e il suo inseparabile cagnolino Milou, rimasero tra i progetti chiusi nel cassetto del regista. Fino ad oggi, quando l'incontro con un altro guru del cinema, Peter Jackson (che da bambino leggeva Tintin) ha permesso di realizzare la magia. La straordinaria tecnica chiamata “motion (o performance) capture” ha dato finalmente vita ad un progetto fermo da trent'anni. E chi meglio del regista de “Il Signore degli Anelli” (tra i primi ad utilizzare il nuovo mezzo, ormai indispensabile nella creazione dei videogiochi) poteva introdurre Spielberg nel mondo della “mocap”. Affidata nuovamente alla WETA Digital (compagnia neozelandese specializzata negli effetti speciali,) la tecnica, è stata utilizzata con l'obbiettivo di rendere i personaggi digitali il più possibile realistici soprattutto nelle espressioni. Ci si è concentrati in particolare sulla resa degli occhi dei protagonisti (Jamie Bell, Andy Serkis e Daniel Craig, gli attori “catturati”) portando addirittura sullo schermo una vera simulazione dell'occhio umano. Davvero riduttivo chiamarlo “cartone animato”. L'apporto che la motion capture sta dando al cinema d'animazione è davvero straordinario. Gli attori stanno apprendendo un nuovo modo di recitare, più simile forse a quello del cinema muto ma che comunque permette di apprezzarne le doti attoriali (si parlò addirittura di candidatura all'Oscar per il Gollum di Andy Serkis). Insomma, una tecnica davvero rivoluzionaria e un regista come Spielberg non poteva certo ignorarla.
Un altro strumento che non ha lasciato indifferente il buon Steven è la visione in 3D. Utilizzato soprattutto in film ricchi di effetti speciali, il 3D ha forse un valore aggiunto nel cinema d'animazione dove si è più liberi di sfruttarlo a pieno. A mio modesto parare però, anche in questo lavoro la visione con i tipici occhiali (dalle lenti oscurate che non permettono di apprezzare il colore dell'immagine; davvero un peccato!) non ha aggiunto niente alla qualità della pellicola. Ad eccezione forse dei titoli di testa dove l'animazione bidimensionale, già sperimentata nell'introduzione di “Prova a prendermi” (sempre di Spielberg) ne è risultata perfezionata, grazie all'effetto profondità.
L'auto-citazione non si ferma però alla sequenza introduttiva. Impossibile non pensare al mitico Indy nel vedere inseguimenti con motocicletta e sidecar, incidenti con grossi idrovolanti e villaggi orientali. Per non parlare del umorismo, del ritmo narrativo e della colonna sonora firmata John Williams, autore spesso al servizio di Spielberg e in particolare ideatore del famosissimo motivo che accompagna le gesta del Professor Jones. Da segnalare anche la scena in cui il ciuffo rosso di Tintin esce dall'acqua come la terrificante pinna dorsale de “Lo squalo”.
Ancora una volta il cinema di Spielbeg si rivela trasversale: divertimento per tutte le fasce d'età grazie alla perfetta unione tra i moderni effetti speciali e la classica storia d'avventura.
Ma l'esperimento Tintin non finisce qui. Per il prossimo capitolo (si parla già di trilogia) le parti si invertiranno: Jackson alla regia e Spielberg nel ruolo di produttore. Si divideranno invece la sedia di “director” per il terzo episodio. Il fenomeno della saga non è ancora passato di moda.
Chissà se i cultori del fumetto originale gradiranno il loro eroe in CGI. Chi ama Tintin infatti ha imparato ad apprezzare la “linea chiara”, stile grafico caratterizzato da una rigorosa pulizia del tratto, che ebbe proprio la sua maggiore espressione con le strisce di Hergé. Un personaggio nato quindi in due dimensioni e dal profilo ben definito.
Una cosa però è certa. Nel 1983, poco prima della sua scomparsa, il “papà” di Tintin disse: “ Se c'è qualcuno che può portare sullo schermo la mia creatura, questo è proprio Big Steven”.
Che ci piaccia o no, il Re Mida di Hollywood ha avuto di nuovo ragione.

Guarda il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=1QuviWRA0z8

mercoledì 2 novembre 2011

L' ALBA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE (di R. Waytt, 2011)


Negli anni '70 Oliver divenne una star internazionale. La sua foto era su tutti i giornali dell'epoca. Ma Oliver non era un divo del cinema o una rockstar, ma uno scimpanzé o più precisamente un esemplare (unico) di scimpanz-uomo. La scimmia infatti presentava caratteristiche più simili all'uomo che a quelle dei suoi fratelli primati, tanto che fu ritenuto da molti il famoso “anello mancante”. Per anni Oliver visse con una coppia di coniugi americani rivelando sorprendenti atteggiamenti umani, come camminare eretto, spingere una carriola od oziare sul divano.
Pare che l'attore Andy Serkis (interprete, sotto mentite spoglie, del Gollum e di King Kong targati Peter Jackson) si sia ispirato proprio ad Oliver per portare sullo schermo lo scimpanzé Cesare, protagonista de “L'alba del pianeta delle scimmie”.
Diretto da Rupert Waytt, il film si propone di rilanciare un filone iniziato nel 1968 e continuato negli anni '70. “Il pianeta delle Scimmie” film cult con Charlton Heston e tratto dal romanzo di Piere Boulle, diede il via ad una serie di sequel tra i più numerosi della storia del cinema, terminata con il poco pregevole film di Tim Burton del 2001.
In un mondo (il nostro) dove gli animali sono ancora utilizzati come cavie, uno scienziato (interpretato da James Franco) tenta di scoprire una cura per l'Alzheimer. Testato sugli scimpanzé, uno dei sieri sembra essere la giusta cura. Ma l'effetto che avrà sui primati, sarà del tutto inaspettato. Le scimmie dimostreranno infatti intelligenza e capacità cognitive eccezionali. E una di loro, Cesare, consapevole delle sue capacità, guiderà la rivolta dei suoi simili contro chi li ha privati della libertà. Questo quindi ciò che darà il via alla nostra estinzione e alla conquista della Terra da parte delle scimmie.
Ormai, sempre più spesso, il cinema di fantascienza ci mostra come la ricerca scientifica e l'obbiettivo di sconfiggere le più terribili malattie dei nostri tempi ci porterà presto o tardi alla rovina. Negli anni '60 il nucleare era il nemico numero uno; ora è la ricerca contro il cancro. “L'alba del Pianeta delle Scimmie” riprende quindi un filone molto caro agli amanti della fantascienza, attualizzandolo nei contenuti e avvalendosi delle tecniche più avanzate.
Ciò che rende infatti interessante questo film non è l'ambientazione o la trama (piuttosto prevedibile), ma l'uso (sempre più diffuso) della “motion capture” ( o “mocap”). Per chi non la conoscesse si tratta di un tecnica (utilizzata anche in altri ambiti, come quello medico) che permette di “catturare” letteralmente movimenti ed espressioni di un attore. Elaborati al computer poi, questi dati daranno vita ad un personaggio “animato” dai movimenti perfettamente realistici. La tecnica si avvale di tute speciali e microtelecamere indossate dall'attore per tutto il tempo della recitazione. La cosa non è alquanto facile a tal punto che il già citato Andy Serkis, specialista ormai in questo campo, ha aperto una scuola per insegnarne i trucchi ai nuovi “attori-animatori” degli anni 2000. Inaugurata con il Gollum della saga de “Il Signore degli Anelli”, la tecnica ha raggiunto livelli notevoli con “Avatar” di James Cameron. Nel nostro film la motion capture ha permesso di dare a Cesare quelle espressioni e quello sguardo di consapevolezza che gli permetterà di dominare il nostro mondo. Le parti più toccanti infatti del film ci sono regalati da questa scimmia, “figlia” del computer ma con gli “occhi vivi”, umani (e verdi) di Andy Serkis.



A parere di chi scrive però, nessuna tecnica può eguagliare la scena finale del film con Charlton Heston. Un pianeta sconosciuto. Una spiaggia. Un uomo, disperato, si scaglia contro la sua stessa razza. Di fronte a lui, ciò che resta di una statua (della Libertà!), simbolo di una civiltà perduta. Il colpo alla stomaco è incomparabile. Riscopritelo!



martedì 20 settembre 2011

SUPER 8 (di J.J.Abrams, 2011)

Se si potesse definire un film con una sola parola, per “Super 8” sceglierei NOSTALGIA. Nostalgia per quei film che ci ricordano l'infanzia. Per quei racconti in cui i ragazzini sono gli eroi. Dove l'amicizia è il motore principale e dove il “diverso” non fa paura. Per chi come me è nato tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 comprenderà meglio di cosa sto parlando. Vi ricordate “E.T”, “I Goonies”, o “Stand by me”? Film d'avventura per ragazzi che ci hanno divertito ed emozionato? Questi titoli hanno un unico comune denominatore: il grande Steven Spielberg. Capostipite del genere e regista di capolavori come “I Predatori dell'arca perduta” e “Schindler's list”da anni ormai ricopre il ruolo di produttore esecutivo (quest'anno però torna alla regia con ben tre titoli). Ma quest'ultimo lavoro sembra davvero partorito dal suo genio. Al suo terzo lungometraggio, J.J.Abrams, creatore di “Lost” e produttore di “Cloverfield” abbraccia totalmente la poetica Spielberg e gli rende omaggio con un film dal sapore tipicamente anni '80.
Ohio, 1979 ( non a caso, trent'anni fa). Un gruppo di ragazzini sta girando un film in super8 da presentare ad un concorso provinciale. Durante le riprese assistono impotenti al deragliamento di un treno. Ai loro giovani occhi apparirà subito chiaro che non si è trattato di un banale incidente e quello che la loro cinepresa ha impresso nella pellicola è qualcosa di davvero spaventoso, al di là di ogni immaginazione.
Ottimo il cast di giovani attori (sembrano usciti direttamente da “I Goonies”) tra cui spicca la tredicenne Elle Fanning (sorella di Dakota, già vista ne “La guerra dei mondi”). Manca la star hollywoodiana di richiamo ma il film si avvale di ottimi interpreti come Kyle Chandler e Ron Eldard, interpreti entrambi di due genitori tormentati.
Se tutto urla sfacciatamente “Spielberg” (le biciclette, ragazzini “diversi” e malinconici, il difficile rapporto con i genitori, l'Area 51) Abrams ci riporta prepotentemente nel 2011 con la scena spettacolare del deragliamento (da brivido!) e con un “altro” che ricorda più da vicino gli alieni di “District 9” (prodotto proprio da Abrams) o la terrificante “presenza” di “Cloverfield” piuttosto che i luminosi “omini” di “Incontri ravvicinati de terzo tipo”. Incarnazione delle nostre peggiori paure, il “mostro” che provoca dolore e distruzione è il triste frutto delle più cattive azioni delle razza umana.
Prodotto dalla Amblin (fondata da Spielberg) e dalla Bad Robot ( di proprietà Abrams) il film tenta una fusione tra il cinema avventuroso pre-adolescienziale anni '80 e quello tutto adrenalina ed effetti speciali dei nostri giorni senza però, a parere di chi scrive, riuscirci definitivamente. Il film alterna infatti scene d'azione ad alta tensione a momenti più intimisti, legati alle tristi condizioni dei piccoli film-makers: due filoni paralleli che sembrano non trovare un vero punto di incontro. Anche nella toccante scena finale, risolutiva della vicenda umana dei protagonisti, tutto ( i colori, la sontuosa colonna sonora, il vento nei capelli) non può non ricordarci le atmosfere di “E.T.”, nonostante lo sguardo di Abrams tenti di ricondurci ad una dimensione più terrena e meno sognante.
La pellicola comunque diverte ed emoziona. In un cinema dove tutto è sequel e prequel e dove gli anni '80 sono di gran moda, qualcuno potrebbe pensare:”Niente di nuovo sul fronte Hollywood”. Forse è vero ma in fondo per noi, cresciuti a pane e Indiana Jones è piacevole tornare a piangere e ridere allo stesso modo di quando immaginavamo un'avventura in stile “Goonies” o di quando sognavamo di volare via su di una bicicletta con E.T.. Nostalgia insomma. La stessa nostalgia che ha portato questi due grandi autori ad incontrarsi e a condividere la loro passione cinefila. Da sottolineare infatti che la giovane troupe del film realizza un simpatico corto ispirato agli horror anni '60 e in particolare a “La notte dei morti viventi” di George Romero (a questo proposito vi invito a non lasciare la sala prima dei titoli di coda). Forse il vero incontro è avvenuto proprio in questo piccolo film nel film.



KUNG FU PANDA 2 (di J.Y.Nelson,2011)

L'antica arte del kung fu ha ormai abbracciato un nuovo stile: quello del Panda. Accanto ai cosiddetti “stili imitativi” (impersonati nel film da Tigre, Scimmia, Vipera, Mantide e Gru), “la versione di Po” ha invaso il mondo dell'animazione con la sua “ingombrante” simpatia. Per il suo sedicesimo lungometraggio in CGI la Dreamworks rispolvera uno dei suoi maggiori successi (700 milioni di dollari al botteghino per il primo capitolo) realizzando un film d'animazione che rende ancora una volta omaggio agli stereotipi orientatali con originale ironia.
Ancora incredulo nel combattere a colpi di kung fu accanto ai suoi miti, i Cinque Cicloni (di cui conserva le “action figure”), Po, novello Guerriero Dragone dovrà fare i conti con le proprie origini (perché suo padre è un'oca??) per trovare la pace interiore e completare così il suo addestramento. Dal suo oscuro passato arriverà infatti Lord Shen, un pavone bianco principe reietto, determinato a conquistare la Cina e a decretare la fine del kung fu.
Rispetto al primo capitolo il racconto si dipana in maniera più lineare favorendo purtroppo una trama meno avvincente (e spesso scontata) che vede protagonisti assoluti Po e la sua nemesi-Lord Shen. I personaggi secondari, già conosciuti nel primo episodio (uno per tutti, il Maestro Shifu) rimangono infatti sullo sfondo, a cornice della più classica battaglia tra il bene e il male (peccato!).
Il film non risparmia comunque notevoli scene d'azione ed episodi divertenti. I combattimenti rispecchiano fedelmente i reali movimenti del kung fu ed è divertente vedere come l'agile arte marziale dei “Furious Five” e quella più “pesante” del panda diano vita ad uno spassoso ma efficace gioco di squadra. Interessante e molto bella l'animazione bidimensionale utilizzata nell'introduzione: le figure si sovrappongo no ai fondali come fluttuanti ombre cinesi.
Torna il ricco e già rodato cast di voci originali (Dustin Hoffman e Angelina Jolie solo per citarne alcuni) capitanato da Jack “Po”Black che dona al tenero panda tutto il suo umorismo ( per la voce italiana, riconfermato Fabio Volo). Tra le new entry invece l'attore inglese Gary Oldman, anima di Lord Shen, il temibile pavone che, sugli schermi italiani, prende vita grazie alla voce avvolgente di Massimo Lodolo. Se la sceneggiatura è ancora affidata a Jonathan Aibel e Glenn Berger (eccezionalmente affiancati da Charlie Kaufman), cambia invece la regia. A prendere il posto dei veterani Mark Osborne (“Spongebob Squarepants”) e John Stevenson (“Shrek” e “Madagascar”), la debuttante Jennifer Yuh Nelson, prima donna a dirigere da sola un lungometraggio d'animazione ad alto budget. Di origine koreana, la Nelson era già stata ideatrice della sequenza d'apertura in 2D e supervisore dello storyboard per il primo capitolo. Di quest'ultimo ha mantenuto stile, umorismo e saggezza orientale (“Non conta chi sei, ma chi scegli di essere”, è il mantra al centro della storia), realizzando un cartoon piacevole, adatto a tutta la famiglia.
In attesa quindi del terzo capitolo (pare siano stati previsti in totale ben 6 episodi), godetevi il ritorno del“panda-monio” con i vostri bimbi.

Guarda il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=M1z8rhbFmkA