"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

mercoledì 14 dicembre 2011

NON LASCIARMI (di M. Romanek, 2011)


Kathy, Tommy e Ruth. Tre nomi senza cognomi; tre volti senza emozioni; tre corpi senz'anima. Questo quello che dovevano essere per chi li aveva creati; e questo ci si aspettava da loro. Perché loro sono “speciali”.
Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro (considerato dal Times il migliore romanzo del 2005), il film racconta la storia di tre studenti del collegio inglese Hailsham. e della loro amicizia. Cresciuti in un rigido istituto tipico della “old England”, i tre ragazzi vivono apparentemente sereni e protetti. La rivelazione di un'istitutrice sul loro destino sconvolgerà per sempre il loro stretto legame ma non li porterà mai ad una completa ribellione a quella vita che era stata predisposta per loro.
Tutto nell'opera del regista Mark Romanek (autore di famosi videoclip per star del calibro di Madonna, Michael Jackson e Coldplay) sottolinea la negazione dell'identità e l'accettazione del proprio destino. Il personaggio che incarna di più tutto questo è quello di Kathy. Rassegnata all'idea di non poter amare Tommy, diventato compagno di Ruth, da adulta abbraccerà il proprio fato impegnandosi come assistente prima di passare all'ultima fase come donatrice. A differenza sua Tommy e Ruth manifesteranno un leggero segnale di ribellione ( Tommy con l'arte del disegno e Ruth legandosi sentimentalmente allo stesso Tommy privandolo dell'amore di Kathy); ma capiranno ben presto che i loro tentativi saranno vani. Con la scomparsa di Ruth anche Kathy assaporerà per un attimo il piacere della speranza. Ma quando questa si dissolverà definitivamente il suo grido di dolore non sarà lacerante come l'urlo di Tommy. Incapace di sperare, di sognare,di urlare la propria infelicità, Kathy avrà così vissuto a pieno la propria breve vita? Ovviamente no. Il suo è stato sì un grido silenzioso, soffocato, ma come gli altri profondo, doloroso, straziante. Come suggerisce il trailer, non si può fermare le emozioni, la speranza, l'amore, qualsiasi sia la vita predisposta per noi. Se Peter Weir nel suo splendido “The Truman Show”, ci mostrava l'impossibilità di controllare una vita richiudendola un mondo comunque sfacciatamente finto e claustrofobico, il mondo di Romanek ci appare invece possibile, una sorta di realtà parallela che potremmo già aver raggiunto. A questa tragedia si aggiunge l'incapacità dei protagonisti di portare avanti una rivolta che potrebbe salvarli. Sono immobili, lenti, come lo stesso ritmo della pellicola. Nonostante lo spettatore venga messo al corrente sin dall'inizio del destino dei ragazzi, questa dilatazione dei tempi lo accompagna in un viaggio sempre più doloroso. fino alla sofferta, inevitabile conclusione.
Questo lento dipanarsi della storia fa del film di Romanek un film intimista, profondo più vicino forse alla cinematografia orientale che a quella statunitense.
Ottima la prova dei giovani attori: Carey Mulligun ( novella Audry Hapburn in “ An Education”) nei panni della dolce Kathy; Andrew Garfield (prossimo Spiderman) in quelli del timido Tommy; Keira Knightley ( già Elizabeth Swan nella saga de “Pirati dei Caraibi”), un' androgina e tormentata Ruth. Glaciale infine Charlotte Rampling, interprete della rigida direttrice di Hailsham.
A fare da sfondo un' Inghilterra ancora più grigia e fredda ma senza tempo. Emblematica la barca arenata sulla spiaggia che non può salpare. Come essa non conosce la brezza del mare, i nostri protagonisti non conoscono la vita “normale” in quanto esseri “speciali” Kathy, Tommy e Ruth infatti, non sanno ordinare ad una tavola calda, non sanno giocare, non sanno vivere serenamente la propria sessualità perché tutto questo prevede piacere e provare piacere implica avere creatività. Chi li ha creati non si aspetta inventiva. E se anche essa viene manifestata (come l'arte nei disegni di Tommy), viene ridotta a mero oggetto di studio. Ma come per Truman in “The Truman Show”, l'anima e le emozioni non si possono rinchiudere e reprimere. Ed così che Kathy, ancora bambina, nonostante le alte e fredde mura di Hailsham, verrà raggiunta da una canzone che, per la prima volta, le scalderà il cuore e che dice: “Never let me go” (“Non lasciarmi”).

Guarda il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=T92u4y1aO6g



sabato 3 dicembre 2011

THIS MUST BE THE PLACE (di P. Sorrentino, 2011)



Oggi faremo un viaggio un po' diverso. Non andremo in paesi fantastici, non viaggeremo nel tempo ma l'itinerario sarà davvero speciale. Dalla verde Irlanda, voleremo in America per un percorso “on the road” i cui ingredienti principali saranno la memoria, la musica e la ricerca di sé.
Qualcosa mi ha disturbato. Non so esattamente cosa, ma mi ha disturbato”, ripete più volte Cheyenne, protagonista di questa toccante storia, originale nelle forma che qualcuno ha persino definito un UFO nel panorama cinematografico moderno.
Rockstar americana in pensione, Cheyenne ( interpretato da un bravissimo Sean Penn ) vive una vita tranquilla e appartata ma pervasa da un profondo disagio, a tal punto da confondere la noia con la depressione. Intrappolato in una condizione di eterno “bambino” (“Ecco perché non hai mai imparato a fumare”, gli rivela un'amica), nascosta dietro un look punk-rock anni '80 (un po' Robert Smith dei Cure, un po' Edward Mani di Forbice), il personaggio di Cheyenne è una maschera tragi-comica, che rasenta il limite della caricatura ma che non può lasciarci indifferenti. L'ex leader dei “The Fellows” sembra sempre “fuori tempo”. Si muove perennemente al rallentatore, appesantito anche da quel trolley che si porta sempre appresso, come una sorta di coperta di Linus.Un bagaglio pieno di ricordi approssimativi tipico di chi non riesce a vivere a pieno la propria vita.
Il ricordo più “generico” è quello legato al padre, con il quale non ha rapporti da trent'anni. Sarà proprio la morte di quest'ultimo a convincere Cheyenne a volare negli Stati Uniti ed ad intraprendere un viaggio attraverso la provincia americana per portare a termine la missione di una vita del padre ebreo: trovare la guardia nazista che ad Auschwitz lo aveva umiliato. Cheyenne entrerà così in contatto con la tragedia dell' Olocausto, che prima conosceva solo “in modo molto generico” (proprio come suo padre).
Il film può facilmente definirsi un “romanzo di formazione”, alla fine del quale il protagonista trova finalmente la sua dimensione, il suo “posto” nel mondo, seppure in modo inconsapevole. “Sono in New Mexico, mica in India”, risponderà infatti Cheyenne alla moglie che gli chiede se sta trovando sé stesso. Difficile però racchiudere in un unico genere un'opera che ad ogni scena, ad ogni quadro ci tocca dentro (ci "disturba") facendoci sorridere o commuovere per questo strano personaggio; questa rockstar triste che non sa seguire il "ritmo" delle vita.
Per non parlare poi della meraviglia di quegli spazi sconfinati tipici del paesaggio americano , della bellissima fotografia di Luca Bigazzi, e della splendida colonna sonora. Se c'è una cosa infatti che non si può dimenticare dopo la visione di questo film è proprio la musica. Scritta da David Byrne (che nel film fa un piccolo cameo nei panni di sé stesso ), leader dei Talking Heads e autore della canzone che dà il titolo al film ( ma anche della mitica “Psycho Killer”!), le sue note accompagnano il viaggio di Cheyenne sottolineandone movimenti ed emozioni e coinvolgendo totalmente lo spettatore. Sorrentino ha dichiarato di avere inserito nel film quella musica che ha amato durante l'adolescenza. E questo forse lo rende il film più personale del regista napoletano.
“Spensieratezza”, la parola preferita dal padre di Cheyenne, annotata nei suoi diari e connotata da una profonda nostalgia. Quella spensieratezza che si ha solo da ragazzi e che Sorrentino sembra ancora avere. Il regista, in un'intervista, ha infatti ammesso di non fare cinema seguendo dei calcoli ma abbandonandosi un po' all'incoscienza. Se il risultato sono opere coma questa, allora ben venga l'incoscienza. Quell'incoscienza che porta Cheyenne a fare un lungo viaggio per un padre che non conosceva; l'incoscienza che gli fa ammettere il proprio disagio (“disturbo”) di fronte alla vita, senza sapere il perché. Se film belli come questo devono per forza esistere in un posto, allora il loro deve essere l'incoscienza. This....must be the place.