"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

martedì 19 marzo 2013

FRANKENWEENIE (di T. Burton, 2013)



Rapporto burrascoso quello tra la Disney e Tim Burton.
Un rapporto senz’altro di rispetto ma mai di completa comprensione. Un rapporto iniziato nel 1979 quando un giovanotto di Burbank appassionato di disegno (e formatosi alla Cal Arts) viene assunto nella fabbrica dei sogni della Disney, allora un faro per chiunque volesse lavorare nell’animazione. Il nostro giovane però si trova ben presto in un mondo che gli va stretto. Burton infatti prova un forte disagio a disegnare graziosi animaletti (era tra gli animatori di Red e Toby -Nemiciamici) e il suo personale stile non è compreso da tutti. I pochi che lo sostengono gli permettono comunque di muovere i suoi primi passi nell’animazione a passo uno e nel live-action. Ma la Disney (che negli anni ’80 attraversava un periodo di transizione e di confusione in merito alla direzione che la casa di Topolino doveva prendere), pur riconoscendone il talento, non riusciva a  trovare una collocazione idonea ai suoi lavori. Tra queste opere, anche quel piccolo capolavoro che fu  Frankenweenie.
Cortometraggio di 25 minuti, Frankenweenie (uscito nel 1984) non convinse le allora “alte sfere” della Disney che lo classificarono PG (Parental Guidance, cioè per minori accompagnati da un adulto) e lo relegarono in archivio in quanto non poteva (sempre secondo i fedelissimi di zio Walt) accompagnare la riedizione prevista per quell’anno di Pinocchio.
In seguito all’ennesima frustrazione Burton lasciò la Disney e per sua (e nostra!) fortuna, grazie proprio agli eventi che seguirono la lavorazione di Frankenweenie, divenne il visionario cineasta che oggi tutti conosciamo e ammiriamo.
A distanza di quasi trent’anni il buon Tim decidere di riprendere quel particolare progetto, realizzando forse uno dei film più personali della sua carriera.
Il giovane Victor Frankenstein è un ragazzino solitario amante della scienza il cui unico amico è il suo cagnolino, Sparky. Quando quest’ultimo muore in un incidente stradale, Victor decide di riportarlo in vita grazie agli insegnamenti del nuovo professore di scienze, il Sig. Rzykruski. Riuscito nel folle esperimento, Victor dovrà però proteggere il suo fedele amico dalla paura e diffidenza degli abitanti del piccolo paese.
In questo film è racchiusa tutta l’idea di cinema di Tim Burton. La sua filosofia, le sue passioni ma anche le sue emozioni e il suo essere uno spirito libero.
In Victor non è difficile riconoscere un giovane Tim Burton, un ragazzino solitario amante del cinema horror che vive nell’avan-posto hollywoodiano di Burbank dal quale vorrebbe volare via. Victor vive infatti in una cittadina di provincia che, seppur in bianco e nero, non è altro che la Burbank dagli inquietanti colori pastello di Edward Mani di Forbice, altro alter-ego burtoniano.
In Frankenweenie è espressa la forte passione di Burton per il cinema horror, in particolare quello degli anni ‘30 e degli anni '50. Da Frankenstein (di James Whale) a Godzilla passando per La moglie di Frankenstein (sempre di Whale), gli omaggi e rimandi a quel cinema espressionista si sprecano. Nelle fattezze del Sig. Rzykruski poi, si possono riconoscere quelle di Vicent Price idolo del nostro regista e protagonista del cinema horror anni ’50 (uno per tutti La maschera di cera) e ’60 (interpretò una serie di film tratti dai racconti di Edgar Alan Poe), che proprio con il nostro regista aveva stretto un forte rapporto di amicizia e che concluse la sua carriera nel 1993 interpretando il padre-inventore di Edward Mani di Forbice.
Ed è proprio in  Edward che io trovo con Frankenweenie i maggiori contatti. Teneri, malinconici e gustosamente horror, queste due opere riescono a restituire al meglio l’interiorità di questo regista non convenzionale ed originale che ha incantato una generazione.
Profondamente curata e raffinata l’animazione in stop-motion scelta da Burton (nel 1984 il film fu girato in live-ction). Già sperimentata in Nightmare before Christmas e La sposa cadavere, qui la tecnica acquista un valore aggiunto nel restituire creature e atmosfera di un cinema ormai lontano ( un po’ lo stesso risultato ottenuto da Martin Scorsese in  Hugo Cabret con uno spettacolare 3D). Una dichiarazione d’amore di Burton al cinema, palesata fin dalla prima sequenza di Frankenweenie dove Victor mostra ai suoi genitori un piccolo film (horror, ovviamente) girato da lui stesso in super8 (ma da vedere con gli occhiali 3D!) con protagonista il suo amato cagnolino Sparky. Anche il film del 1984 iniziava nello stesso modo, e già in quell’opera si poteva riconoscere le caratteristiche tipiche di Burton, allora un regista in erba di ventisei anni che tentava di esprimere il suo mondo. Un mondo che forse solo ora è riuscito a restituire al meglio, dando libero sfogo alle sue passioni senza preoccuparsi di assomigliare a qualcuno o di ripetere sé stesso. Una libertà che allora non gli era ancora permessa.
Da quel 1984 di acqua ne è passata sotto i ponti e con la Disney è ormai pace fatta. Frankenweenie ( nomination  all’ Oscar 2013 per il miglior film d’animazione) è distribuito proprio dagli studios del magico castello, la Walt Disney Pictures ( già co-produttrice nel 2010 di  Alice in Wonderland ).
Da questo eterno scontro-incontro tra due mondi apparentemente lontani non c’è che da aspettarsi (incrociamo le dita!) altre meraviglie. 



Per chi fosse interessato, ecco il corto del 1984 : http://www.youtube.com/watch?v=HWRB-VqKPJs

giovedì 14 marzo 2013

LES MISÉRABLES (di T.Hooper, 2013)



Un’opera musicale. Così è definito Les Misérables. Non un vero film e non un vero musical.
Una delle più belle storie mai raccontate è narrata a suon di note, volti e voci. Pochissimi (quasi nulli) i dialoghi. Ogni emozione è espressa con il canto.
Per chi non ama il genere forse questo non è uno spettacolo per lui ( due ore e mezza abbondanti tutte cantate!). Ma per chi lo ama è davvero il massimo!
Tratto dall’omonimo musical ideato da Claude-Michel Schönberg (sulle scene dal 1980), Les Misérables è l’ennesimo adattamento cinematografico dell’epico romanzo di Victor Hugo, I Miserabili. Pubblicato nel 1862, narra la storia di Jean Valjean, ex-galeotto determinato a diventare un uomo migliore, ma perseguitato dall’implacabile ispettore Javert. Alla ricerca disperata di una redenzione Valjean decide di prendersi cura di Cosette, figlia di una sfortunata ragazza madre ( Fantine) costretta a prostituirsi per sfamare la piccola, affidata alle poco amorevoli cure di una coppia di disonesti locandieri. La storia si snoda nell’arco di un ventennio e tocca alcuni punti importanti della storia francese, tra cui i moti rivoluzionari del 1832.
Diretto da Tom Hooper (Oscar nel 2011 per la regia del bellissimo Il Discorso del Re), la pellicola trasferisce sullo schermo tutta la maestosità e sontuosità di un kolossal. Non di un epico kolossal  hollywoodiano, ma bensì delle sfarzose e fumose scene di Londra. L’impostazione scelta è infatti tipicamente teatrale. I personaggi sembrano schiacciati su fondali dipinti, i colori dei quali (come anche quelli dei costumi) ricordano le pennellate suggestivamente imperfette dei quadri di Eugène Delacroix (pittore romantico per eccellenza). Tranne alcune scene d’esterni e alcune panoramiche ( particolarmente d’effetto la scena d’apertura dove ci si immerge in un cantiere navale), l’intera vicenda sembra prendere forma su un enorme palcoscenico.
Di cinematografico c’è davvero ben poco. Ma quello che c’è è di prim’ordine.
Hooper avvicina la cinepresa ai volti dei suoi attori realizzando stretti primi piani che ne sottolineano l’interpretazione ( in particolare durante gli intensi assoli) e abbattendo così quella distanza tra attori e pubblico peculiare della rappresentazione teatrale.
Molti hanno lamentato anche la mancanza di un incisivo montaggio, relegato soprattutto alla scena della locanda. Sulla musica scanzonata di “Master of the house”, il montaggio è infatti perfetto nel descrivere le bizzarrie dei due truffaldini coniugi Thénadier, abilissimi ad alleggerire le tasche degli ignari avventori.
Un regia invisibile dunque, che sembra lasciare spazio solo alle emozioni. Emozioni che, innegabilmente, arrivano forti.
Lo stellare cast non ha tradito le aspettative. Hugh Jackman (Jean Valjean) restituisce una voce forte e limpida al pari di Colm Wilkinson (Valjean a teatro e qui interprete del Vescovo di Digne)  duettando con la voce profonda (e rock!) di Russell Crove (Javert). Anne Hathaway (Fantine), in soli quindici minuti di pellicola (e con la splendida “I dreamed a dream”), lascia il segno e seduce l’Academy che le regala il suo primo Oscar come attrice non protagonista. Amanda Seyfried ( la cui voce è già stata apprezzata nel musical Mamma Mia!) è una dolcissima Cosette innamorata di Marius, il giovane rivoluzionario interpretato da Eddie Redmayne che per l’occasione ha studiato canto cavandosela egregiamente. Strepitosi i coniugi Thénadier di Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter, che già avevano lavorato insieme nel musical “burtoniano” Sweeney Todd. Il diabolico barbiere di Fleet Street (il personaggio della Bonham Carter ricorda proprio la Sig.ra Lovett, con tanto di carne macinata). Ma la mia personale preferenza va a Samantha Barks, già Éponine anche sul palcoscenico. La sua “On my Own” sotto la pioggia è da brividi.
Tutte le canzoni arrivano direttamente dal musical teatrale tranne una, “Suddenly”. Creata appositamente per film, sottolinea il momento in cui Valjean, accogliendo Cosette nella sua vita, non è più solo. Momento che, per gli addetti ai lavori, era difficile ricreare a teatro. Con la regia di Hooper invece, quella pagina del romanzo di Hugo ha potuto prendere vita.
La novità di questo musical/opera è che tutti gli attori hanno interpretato le loro canzoni “live” durante le riprese. Da un auricolare ben nascosto ascoltavano la melodia suonata per loro da un pianista ( l’esecuzione dell’orchestra è stata poi aggiunta in post-produzione). Questo ha dato agli attori maggiore libertà di movimento ed interpretazione, non dovendo rimanere all’interno dei limiti della loro voce registrata in sala, magari parecchi mesi prima delle riprese. Il risultato è un’interpretazione più realistica, sentita, con tanto di respiri e imperfezioni che rendono l’esecuzione “sporca” abbastanza da toccare il cuore dello spettatore. Spettacolo puro, Les Misérables. Uno spettacolo di emozioni.
In conclusione mi sento di fare un piccolo appunto. Nonostante ammiri il lavoro del doppiaggio ho trovato superflua la scelta italiana di doppiare quei pochi dialoghi presenti nel film. Fin dall’inizio della pellicola ci si abitua alle voci originali dei protagonisti e l’inserimento di quelle dei doppiatori crea un effetto straniamento che forse si poteva evitare. A mio parere, i sottotitoli anche per i dialoghi sarebbero stati più consoni.


 
  
Anne Hathaway, I dreamed a dream http://www.youtube.com/watch?v=dmHcDWrMH-8 
Samatha Barks, On my own (Trailer) http://www.youtube.com/watch?v=KCPoIsi8m08



domenica 3 marzo 2013

LOOPER (di R. Johnson, 2013)



2044, Kansas. “Il viaggio nel tempo non esiste ancora. Ma da qui a trent’anni lo inventeranno.” Queste le intriganti parole che aprono quest’originale pellicola. E le immagini che le precedono, non lo sono da meno.
Un giovane killer attende pazientemente davanti a sé la sua vittima. Tra le mani, oltre ad un grosso fucile, un orologio da tasca che con il suo ticchettio scandisce la sua attesa. Ed ecco che la vittima, incappucciata, compare dal nulla proprio su quel telo bianco che, appena un’istante prima, era vuoto. Il ragazzo spara senza esitazione e riscuote la sua ricompensa di lingotti d’argento appositamente preparati ed agganciati alla schiena del defunto.
Joe (Joseph Gordon-Levitt) è un killer il cui compito è giustiziare i criminali del futuro spenditi indietro dal 2074, anno in cui i viaggi nel tempo sono una realtà ma illegali. Per questo motivo sono sfruttati dalla criminalità, che se ne serve per disfarsi dei cadaveri, impossibili da occultare in un futuro dove chiunque è controllato da un microchip. Joe è parte di un’ organizzazione di sicari chiamati “looper”, i cui “loop” (cerchi, anelli) si chiuderanno ne momento in cui giustizieranno loro stessi, trent’anni più vecchi. A nessuno è permesso lasciarsi sfuggire il proprio “loop”. Ma quando Joe incrocerà lo sguardo con il sé stesso futuro (Bruce Willis), comparso di fronte a lui con il volto scoperto, sbigottimento e conseguente esitazione saranno inevitabili.
Il miglior cinema di fantascienza dai risvolti filosofici si mescola all' action-thriller creando un film intelligente e sofisticato, in grado di incollare lo spettatore allo schermo dall’inizio alla fine. Il giovane regista indipendente Rian Johnson, alla sua terza regia, costruisce una storia  a d’incastro complessa, proponendo la sua personale rielaborazione di uno dei temi tra i più saccheggiati dalla fantascienza: il viaggio nel tempo. Se i riferimenti cinematografici sono molti ( l’atmosfera cupa di Blade Runner, la narrazione a livelli di Nolan, la filosofia dei Wachowski, e soprattutto gli interrogativi posti, seppur in maniera più leggera, da Ritorno al Futuro), Johnson sa mascherare bene le sue fonti e realizza un opera che non ha il retrogusto del già visto.
Mentre dubbi e interrogativi su implicazioni e conseguenze che provocherebbero un’alterazione degli eventi  invadono le menti di protagonisti (costretti a fare i conti con sé stessi) e spettatori, il film procede sicuro e, come il meccanismo perfetto di un orologio, scandisce il tempo di una storia complessa ma dei quali eventi si intersecano perfettamente. I due grandi “loop”, i due anelli, che costituiscono la struttura del racconto combaciano in un punto preciso. Un punto che è al contempo chiusura e ripartenza e da dove ha origine un “infinito” la cui direzione è determinata solo dalle scelte prese.
L’azione si svolge nelle prima parte in uno spazio urbano. Una città (come in molti film di fantascienza) senza innovazioni iper-tecnologiche, ma dove pervade un forte degrado che coinvolge anche il mondo della droga, assunta attraverso gli occhi con un contagocce. Dall’area metropolitana, la vicenda si sposta poi in campagna e assume una dimensione più intimista, senza mai scordarsi però della tensione che, fino allo spettacolare e terrificante finale, non molla la presa.
Joseph Gordon-Levitt, uno dei miglior attori della sua generazione, si cala bene nei panni di un eroe spietato, indurito nell’anima (ma anche nei lineamenti, alterati per farlo assomigliare al “vecchio Joe”, Bruce Willis) da un mondo corrotto e da una vita di solitudine.
Bruce Willis, d’altro canto, mette in gioco la sua esperienza di "action-hero" al sevizio di un’interpretazione più matura e sentita. La sua massiccia presenza regala quel tocco vintage che, in un film dove si parla di viaggi nel tempo, davvero non guasta.
A colorare con un tocco di rosa questa pellicola, la sempre più brava Emily Blunt, madre coraggio, divisa tra amore incondizionato e paura paralizzante del proprio stesso figlio. Un bimbo dallo sguardo diabolico (interpretato da Pierce Gagnon), tra i più inquietanti degli ultimi anni.
Di peso, seppur di contorno, le prove di Paul Dano e Jeff Daniels (in particolare Dano, a mio modesto parere, avrebbe meritato più spazio).
Dopo Take Shelter e Cloud Atlas un altro gioiello di rara originalità dunque, che merita solo di essere visto.




venerdì 1 marzo 2013

DJANGO UNCHAINED ( di Q. Tarantino, 2013)



Django…ovvero…non chiamatelo spaghetti-western.
La grande passione di Quentin Tarantino per il western in salsa italiana è risaputa. Erano quasi vent’anni che il regista di origini italiane voleva portare sullo schermo la sua personale interpretazione del genere. E finalmente c’è riuscito.
Django Unchained (settimo film di Tarantino) si presenta fin dalle prime battute come un omaggio al cinema dei nostri Leone, Corbucci e Petroni. Il film, che infatti porta il nome del Django (1966) di Sergio Corbucci con Franco Nero (che qui fa un piccolo cameo in cui scambia una fulminea battuta con l’altro Django), di quel cinema anni '60 e ’70 porta con sé l’atmosfera, la musica, lo stile dei titoli di testo, ma soprattutto quelle tipiche e veloci zoomate in avanti e stretti primi piani, tratti distintivi del genere e di quegli anni.
Ma una volta entrati nel mondo di Django Unchained ci si ritrova ben presto nel mondo di Quentin Tarantino. Un mondo dove quello che sembra non è. Dove non sai cosa aspettarti, e dove i generi si mescolano per confondersi, e per creare qualcosa di nuovo.
1858, Texas. Il Dottor King Schultz (ex-dentista) acquista lo schiavo Django perché lo aiuti nella ricerca dei Brittle Brothers, pericolosi criminali da giustiziare. Schultz è infatti un cacciatore di taglie e in cambio dell’aiuto promette a Django la libertà. Ma una volta terminata la missione, il teutonico sicario che aborra la schiavitù (“questi ferri sono una cosa orribile”, asserisce mentre toglie le catene a Django), decide di aiutare il giovane nella ricerca della moglie Broomhilda (venduta e da lui separata), insegnandogli prima il mestiere di cacciatore di taglie, e poi accompagnandolo nella piantagione dello spregevole latifondista ( il perfido Calvin Candie), che la tiene in catene.
Tema principale della pellicola è la schiavitù, presentata da Tarantino in tutta la sua brutalità ma anche trattata con cinica e perfida ironia.
La prima parte del film, infatti, è pregna del cinismo del Dottor Schultz, mentore di Django, che insegna al giovane schiavo, a “sporcarsi” per riavere la propria moglie. E per questa ragione si sente anche responsabile per lui.
In questa fase la pellicola è ricca di divertenti siparietti con protagonisti i nostri eroi (Django e Schultz) ma anche di momenti grotteschi (come l’improbabile scorreria del Ku Klux Clan, con la spassosa scena dei sacchi) intese a sottolineare l’assurda barbarie del razzismo.
Ma il film cambia registro a partire dall’incontro con Calvin Candie. La brutalità dello schiavismo si fa più severa e reale (dall’ incontro di lotta tra mandingo, allo schiavo sbranato dai cani; dalla terribile punizione subita da Broomhilda, all’interminabile scena della cena a Candyland con tanto di teschio umano). Anche il sangue, che prima sgorgava copioso e in maniera surreale ( caratteristica tipica del cinema tutto-sparatorie di Tarantino) qui trova una dimensione più atroce e soprattutto più realistica. Un realismo che tocca le coscienze e che turba profondamente il Dottor Schultz, vero alter-ego di Tarantino, che alla fine non resiste e compie quel gesto estremo che noi tutti, spettatori di quell’orrore, vorremo compiere.
A seguito di ciò, ecco allora esplodere il puro stile “tarantiniano”: sparatorie interminabili con fiumi di sangue a spruzzi, deflagrazioni e sadiche torture.
E se per tutto il film un po’ci si dimentica dell’omaggio allo spaghetti-western, il regista nel finale ce lo ripropone inserendo con ironia il tema musicale de Lo chiamavano Trinità.
Si chiude perciò un cerchio dove ( come disse Waltz in un’intervista) il cinema western “born in USA”, dopo un “polveroso” viaggio in Italia, torna negli Stati Uniti, rinfrescato però dall’originale visione di Quentin Tarantino.
Django Unchained è facilmente definibile come una storia d’amore, dove un uomo è disposto a fare qualunque cosa per ritrovare la donna amata. Ma è anche una storia d’amore paterno. Il forte legame che Schultz ha con Django trova un corrispondente in quello tra Stephen ( il capo nero della servitù in casa Candie) e Monsieur Candie (come egli stesso ama farsi chiamare). I due rivali sono entrambi creature dei propri mentori ed è grazie a loro che sono gli uomini che vediamo. Figli di un mondo spietato, tra loro va in scena una sfida ad alta tensione a colpi di sguardi, battute pungenti e giochi psicologici. La tensione si scioglie solo con il gesto liberatorio di Schultz (paterno, nel prendersene la responsabilità) e la terribile carneficina che ne consegue.
Il gusto di Tarantino per la contaminazione tra generi coinvolge anche le differenze culturali. In un film infatti in cui si ridicolizza il razzismo, trova posto anche la cultura tedesca. Schultz  racconta a Django la leggenda di Sigfrido che sconfigge il drago per salvare la sua amata Broomhilda. Il parallelismo è chiaro: Django è un novello Sigfrido, e il nome di colei che ama è di nuovo Broomhilda.
Ancora una volta l’attore austriaco Christoph Waltz (e il suo accento) è colonna portante di un  film di  Tarantino e ci regala un altro indimenticabile personaggio (premiato anche con l’Oscar), il Dottor King Schultz, dopo lo spietato Hans Landa di Bastardi Senza Gloria. Ad interpretare Django, il premio Oscar Jamie Foxx, che ha preso il posto di Will Smith e che restituisce al personaggio solidità e determinazione tipici di chi brama la propria vendetta. Perfetti comprimari la bellissima Kerry Washington (Broomhilda) e Samuel L. Jackson (Stephen). Ma la vera sorpresa è Leonardo Di Caprio. Nelle spietate vesti di Calvin Candie ci regala un’altra grande interpretazione dopo The Departed, Shutter Island e Inception. Allontanata ormai quell’aurea da bravo ragazzo dal viso angelico, Di Caprio dimostra nuovamente la sua capacità di calarsi in ruoli diversi e di trasmettere allo spettatore paura, tensione e (con Calvin) spietata malvagità, anche solo con uno sguardo (Come l’Academy possa non vedere il suo talento, per me è ancora un mistero.).
La vendetta di Django è accompagnata da una colonna sonora straordinaria, che spazia tra diversi generi e che annovera tra gli autori Ennio Morricone (splendida la canzone da lui musicata, scritta ed interpretata da Elisa, “Ancora Qui”), Jim Croce e  Johnny Cash ( del quale è stata scelta la ballata country “Ain’t no grave”).
Con Django Unchained (ne quale si ritaglia un piccolo ma “esplosivo” cameo), Tarantino si aggiudica il suo secondo Oscar per la sceneggiatura originale ( dopo Pulp Fiction nel 1995). Ora si attende un terzo film che con i Bastardi e Django crei una trilogia il cui fil-rouge è la vendetta ( tema già ampliamente sviluppato da Tarantino con i due Kill Bill). 
Forse si tratterà di un gangster-movie anni ’30.
Non so voi, mai io (tra i miei film cult c’è Gli Intoccabili di Brian De Palma) un gangster-movie alla Tarantino me lo vedrei subito!  

Ennio Moricone & Elisa "Ancora Qui"   http://www.youtube.com/watch?v=sD__XBhYExc