"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

domenica 16 settembre 2012

PROMETHEUS ( di R. Scott, 2012)


Un gigante, uno strano essere dalle fattezze umane, beve un vischioso liquido nero. Subito dopo  il suo  corpo precipita senza vita in una cascata, disintegrandosi nel fiume. Tra ciò che si disperde nell’acqua, qualcosa ha una forma elicoidale. Proprio come il nostro DNA.
Questo il misterioso inizio di Prometheus, l’ultimo film di Ridley Scott che, a trenta-tre anni da quel capolavoro che fu Alien, riprende in mano il filone horror-fantascientifico che egli stesso ha contribuito a fondare. Ma quello che si presenta come il prequel/spin-off del terrificante alieno nero, dallo stesso si allontana. Perché la perfetta congiunzione astrale che nel 1979 permise la magia, non si è ripetuta.
2089. Gli archeologi  Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) e Charlie Holloway (Logan Marshall-Green) scoprono in una grotta della Scozia una pittura rappresentante una mappa stellare. Avendo riscontrato lo stesso disegno in altre civiltà di differenti epoche, i due scienziati interpretano la mappa come un invito dei nostri creatori (gli “Ingegneri”) a raggiungerli. Tre anni dopo sono a bordo della nave spaziale Prometheus, diretti proprio verso la luna indicata degli Ingegneri. L’astronave ha un equipaggio di diciassette persone tra cui la guida della spedizione Meredith Vickers (Charlize Theron),  l’androide David (Michael Fassbender) e il capitano Janek (Idris Elba). Lo scopo primario di quest’uomini è dare una risposta a quelle domande che da sempre assillano l’umanità: chi siamo, chi ci ha creato, e perché. Ciò che troveranno su quella lontana luna capovolgerà le loro priorità. E il loro “Prometeo”, il creatore, non sarà quello che si aspettavano.
La tematica scelta da Scott è ambiziosa. Per tradurla sullo schermo ha voluto con sé lo sceneggiatore di quel fenomeno televisivo che è stato Lost: Demon Lindelof. E questo, forse, è stato il primo passo falso del regista britannico. A suo agio con trame intricate a sfondo filosofico, Lindelof ha , in questo caso, confezionato una storia semplice che presenta però diversi buchi. Ma che soprattutto, non soddisfa uno spettatore  coinvolto e interessato ai  diversi spunti di riflessione che la sceneggiatura propone. La sensazione che si ha, alla fine della visione, è che ci debba per forza essere un seguito che dia una risposta soddisfacente ai quesiti posti. E il capitolo successivo non può essere Alien. Da esso infatti film si allontana;  ma non certo per ambientazione, atmosfera, ritmo e similitudini tra i protagonisti.
Prometheus infatti immerge senza dubbio lo spettatore nel mondo fantascientifico e cupo di Alien. La pellicola ricalca il film del ’79 riproponendone i ritmi, i silenzi e la tensione.
Come Ripley e i suoi  compagni, anche l’equipaggio del Prometheus viaggia addormentato nelle capsule criogeniche. Anche qui è presente un androide dai comportamenti ambigui, che risponde agli ordini di un oscuro burattinaio. Noomi Rapace poi, nei panni della protagonista, rasenta la mimesi con la giunonica Sigourney Weaver. Ancora una volta è la forza del corpo femminile ad avere le risorse per contrastare la minaccia aliena. Un corpo, in cui convivono perfettamente forza, androginia e sensualità.
Ma è proprio sul piano dei personaggi che Scott fa il suo secondo passo falso. Sia i protagonisti che i comprimari mancano di una personalità ben delineata. La fede che possiede Elizabeth e che fino alla fine non perderà mai, avrebbe meritato un maggiore approfondimento,  in concomitanza con la sua sterilità ( capace però di generare qualcosa di mostruoso). Appena accennati i profili degli altri personaggi. Tra loro , alcuni  appaiono quasi inutili alla fine della trama, come quello di Charlize Theron: perfetta nei panni della glaciale guida, ma non così indispensabile al racconto.
Chi invece non delude e rappresenta il vero cardine attorno al quale ruota la storia è l’androide David. Suoi i dialoghi migliori (che pure ci sono!). Egli ha qualcosa in più rispetto ai suoi compagni: la consapevolezza che la risposta alla domanda più importante possa rivelarsi una grande delusione. David ha il volto  di Michael Fassbender che gli regala il giusto mix di freddezza, ambiguità e stupore.
In conclusione, proprio per le varie similitudini con il primo Alien, ritengo che Prometheus sia da considerare più un omaggio che un vero prequel. I fan più puri della creatura probabilmente rimarranno delusi, ma non potranno negare la forza visiva ( anche in 2D!) del film. Stile di regia e fotografia sono impeccabili. Sequenze che rimangono impresse, come quella in cui David è immerso in un enorme ologramma raffigurante una mappa stellare in cui la Terra è cerchiata.
Un film senz’altro epico, che di Alien ha il sapore. Ma non la magia.
 
 
 

sabato 15 settembre 2012

RIBELLE. THE BRAVE ( di M. Andrews, 2012)



Per qualche istante, mentre ero immersa nelle Highlands scozzesi e nelle folta chiama rossa  di Merida, mi è sembrato di tornare bambina. Sarà per l’atmosfera magica o per le canzoni (che in italiano sono interpretate dalla fulva Noemi) ma il tredicesimo film Pixar  mi ha un po’ ricordato i lungometraggi Disney anni Novanta (La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Il Re Leone). Ma con qualcosa in più.
Ribelle. The Brave  si presenta fin da subito come una fiaba tradizionale che, forse, sarebbe piaciuta tanto allo zio Walt. Ma l’illusione non è totale. Anche se si percepisce un retrogusto di già visto, quell’innovazione che la Pixar ha portato nel mondo dell’animazione, c’è. Anche se leggermente velata.
Merida,  figlia del Re scozzese Fergus,  non è la principessa che ci si aspetta. Alle buone maniere e al matrimonio preferisce tirare con l’arco e cavalcare a perdifiato nella foresta.  E’ ribelle e coraggiosa. A tal punto dal voler cambiare il proprio destino. Ma sulla sua strada c’è un grosso ostacolo: la madre Elinor.  In perenne conflitto con la Regina, che la vorrebbe perbene e disposta a prendere marito per il bene del regno, Merida si sentirà costretta a chiedere aiuto ad una strega per indurre la madre a cambiare idea sulla sua sorte. Ma le conseguenze del suo gesto saranno del tutto inaspettate.
Quella di Merida è la storia di una teenager che cerca di trovare se stessa. E come tutti i ragazzi di quell’età è piena di orgoglio. E sarà proprio il suo orgoglio a metterla sulla cattiva strada.
Senza svelare troppo, sottolineo che il punto focale di questa storia non è (come si potrebbe pensare) la banale emancipazione di una ragazza dai genitori o da un mondo retrogrado e maschilista, ma il difficile rapporto tra madre e figlia. Un eterno conflitto in cui tutte possiamo riconoscerci e che tocca il cuore. Ecco, dove chi scrive, vede la mano geniale dello studio fondato da John Lasseter e Steve Jobs:  nella capacità di commuovere; di creare storie che catturano l’anima di adulti e bambini. Dote che la Disney ( un tempo regina dell’intrattenimento per famiglie)  aveva dimenticato a favore di tecniche più raffinate, ma accompagnate da sceneggiature vuote ( ma che con Rapunzel - che con Merida ha molte analogie- sembra essere tornata agli antichi splendori).
Se le atmosfere risentono di influenze tipicamente disneyiane, non si può non notare un umorismo più pungente degno di Shrek. Anche la Pixar, in questo caso, ha fatto tesoro dell’insegnamento Dreamworks, che ha fatto dell’umorismo la sua bandiera (da Shrek a Kung Fu panda; da Madagascar a Megamind). La parte “buffa” qui è relegata al mondo maschile. Lord scozzesi e  giovani pretendenti sono rappresentati come degli inetti, a sottolineare la connotazione fortemente femminile dell’opera. Il coraggio è donna; quello di Merida e anche di Elinor.
Inutili forse invece  i “siparietti” dei tre fratellini di Merida. Simpatici, ma niente di più.
Lo humour rende l’opera leggera, senza però inficiare i momenti epici del film. Esso è un miscuglio di generi che non cozzano l’uno con l’altro ma che hanno anzi  un loro spazio connotato di senso.
Dove poi la sottoscritta vede cristallinamente ancora la Pixar è nella tecnica. Meravigliosi i fondali che ricreano le atmosfere scozzesi. Dai laghi, alle verdi montagne; dalla fitta nebbia ai castelli medioevali. Splendidi poi i capelli di Merida: rossi, forti, ribelli. Proprio come lei. Sembra quasi di toccarli e sentire sulle dita ogni singolo riccio.
Insomma, Ribelle. The Brave è un cartoon ( se ancora si possono chiamare così) godibile, con una storia non scontata adatta ad adulti e bambini.
Ammetto però che è difficile non avere qualche perplessità. Merida e i suoi ricci  non raggiungono gli apici toccati dalla Pixar in tempi addietro. Il lungometraggio animato diretto da Mark Andrews ( che ha sostituito in corsa Brenda Chapman) non sorprende come Monsters & Co o Ratatouille; e non commuove come UP, Toy Story 3 o Wall-E.
Che in casa Pixar ci sia un po’ di crisi si percepisce anche dalla scelta di fare sequel (Cars 2), prequel ( Mosters University) o di rieditare vecchi successi in 3D (Alla ricerca di Nemo).  
Ma personalmente ritengo che quest’ultima fatica non debba essere duramente stroncata. Perché la luce di Luxo  ( la famosissima lampada da tavolo, da sempre logo della Pixar), per me, brilla ancora. Anche nel forte temperamento di Merida.
Brilla  anche ( e soprattutto) come La luna, il cortometraggio che viene proiettato prima di Ribelle. The Brave, diretto dal nostro italianissimo Enrico Casarosa e presentato quest’anno agli Oscar.
Un vero piccolo gioiello!
 
 
 
 


mercoledì 5 settembre 2012

IL CAVALIERE OSCURO. IL RITORNO (di C. Nolan, 2012)


Christopher Nolan è un regista cerebrale. Il suo è un cinema psicologico, di pensiero, che fonda le sue radici nel mondo reale anche quando sembra trasportarci in mondi “paralleli”. Quello angosciante di una memoria da ritrovare (Memento); quello competitivo e "magico" del XIX secolo (The Prestige); quello intricato del sogno (Inception); o quello corrotto di Gotham City.  
Ed è proprio con questo realismo che egli si è approcciato a Batman, dando il via, nel 2005, a quello che è stato il reboot del personaggio già plasmato con successo da Tim Burton.
Con Batman begins, Nolan dichiarò ufficialmente di voler introdurre l’Uomo Pipistrello in un contesto reale e di approfondire l’aspetto psicologico dell’uomo (Bruce Wayne) e dell’eroe (Batman). Questo file-rouge ha percorso l’intera saga, iniziata appunto con Batman Begins (2005), proseguita con Il Cavaliere Oscuro (2008) e conclusasi ora con Il Cavaliere Oscuro. Il Ritorno.
Sono passati otto anni dalla morte di Harvey Dent e Batman, assente dai cieli di Gotham, è ancora l’indiziato numero uno. Il Cavaliere Oscuro ha scelto l’esilio per permettere al commissario Gordon di attuare il decreto Dent e ripulire Gotham dalla criminalità. Ma anche Bruce Wayne è un fantasma. Invecchiato e con una gamba malandata, il potente miliardario vive da eremita nel suo castello, accudito dal fido maggiordomo Alfred. Ma, come gli rivela la “felina” Selina Kyle, “sta arrivando una tempesta” e Batman dovrà fare il suo ritorno. La minaccia è incarnata da Bane, un terrorista dall’incredibile forza bruta, il cui viso è nascosto da una terrificante maschera degna di Hannibal Lecter. La sua missione? Indurre alla rivolta le fasce più deboli e i criminali di Gotham contro gli abitanti più agiati.  Un’illusione …perché l’intento finale è quello di  distruggere con una bomba nucleare (creata grazie ad un reattore di fusione destinato all’energia pulita, rubato alla Wayne Enterprises) la stessa città di Gotham. Bane è l’attuale capo della Setta delle Ombre  e intende portare a termine il piano del defunto Ra’s al Ghul.
Il film, in senso temporale, segue gli eventi narrati ne Il Cavaliere Oscuro, ma i maggiori contatti li ha con il primo capitolo della saga, Batman Begins. Tornano infatti la Setta delle Ombre e Ra’s al Ghul, prima mentore e poi nemico dei valori difesi da Batman. La minaccia per Wayne arriva di nuovo da chi lo aveva aiutato a far nascere il “simbolo” del pipistrello. Come in un cerchio non ancora chiuso, Bruce dovrà di nuovo provare la paura e il senso di colpa per uscire definitivamente dall’oscurità. Ecco allora il secondo punto d’incontro con Batman Begins: Bruce Wayne, l’uomo dietro la maschera. Un eroe sì, ma tormentato, mosso soprattutto da rabbia che ha imparato a domare, ma mai del tutto a cancellare.
Come sottolineato nel monologo finale de Il Cavaliere Oscuro, Batman è colui che può sopportare ( anche una colpa non sua, come la morte di Harvey Dent), ma le ferite che riporta (quelle dell’anima) non si rimarginano mai. Dopo la decisione di rivestire i panni di Batman (scelta ostacolata da Alfred che teme la perdita definitiva di colui che ritiene ormai suo figlio), l’eroe cadrà; ma dovrà rialzarsi. Bane infatti scaraventa Bruce in una prigione sotterranea, dove l’unica via di fuga è costituita da un profondo pozzo che sale in superfice. Il parallelismo con il pozzo nel quale il piccolo Bruce cadde da bambino, e dove nacque la sua paura per i pipistrelli, è chiara. Dal pozzo è nato Batman e dal pozzo risorgerà. Ma la luce che alla fine troverà, questa volta sarà diversa: in più, avrà in sé la speranza.
Oltre al profilo psicologico in questo terzo capitolo ritroviamo anche l’ ambientazione realistica. Gotham City può essere una qualunque metropoli americana, come New York o Chicago. E  le minacce affrontate da Batman (terrorismo, crisi economica, rivolte sociali) trovano riscontro nella nostra triste attualità.
Il film offre poche scene d’azione (ma non prive di spettacolarità, come in quella d’apertura, girate ancora una volta in IMAX) privilegiando un racconto che si arricchisce di numerosi “spiegoni”; necessari, e che comunque  non appesantiscono lo scorrere degli eventi. La capacità di Nolan infatti, di non far scemare la tensione rimane intatta.
Confermato l’ottimo cast dei due precedenti episodi: Christian Bale (Wayne/Batman), che da L’uomo senza sonno ha viste finalmente riconosciute le sue capacità attoriali con un Oscar come miglior attore  non-protagonista nel 2011; Gary Oldman (Commissario James Gordon) che invece, inspiegabilmente, un Oscar non l’ha ancora ottenuto; gli impeccabili Michael Caine (Alfred Pennyworth) e Morgan Freeman (Lucius Fox). Altrettanto di rilievo le new entry: i già “noleniani” Tom Hardy (Bane), Marion Cotillard (Miranda Tate) e il giovane talento Joseph Gordon-Levitt (John Blake). Da segnalare anche Matthew Modine nei panni del vice commissario Peter Foley. Ma l’applauso va ad Anne Hathaway. A lei è toccato l’ingombrante ruolo di Catwoman (anche se nel film non viene mai chiamata così!), ovvero la ladra Selina Kyle. La precedente “gatta” di Michelle Pfeiffer era rimasta nei cuori dei fan per carisma e sensualità. Difficile eguagliarla, ma la Hathaway ha superato la prova a pieni voti, dimostrando di potersi calare in ruoli molto diversi.
Illustri infine i camei di Liam Neeson e Cillian Murphy che riprendono i ruoli già assunti nei precedenti episodi (rispettivamente Ra’s al Ghul e Jonathan Crane).
Anche se, personalmente, la mia preferenza rimane per Il Cavaliere Oscuro del 2008, ritengo che l’ultima fatica di Nolan sia un ottimo film, epico quanto basta, interessante per trama e realizzazione. Un’opera da vedere tutto d’un fiato, nonostante la lunghezza ( 2 ore e mezza abbondanti!).
Una degna conclusione, per una saga che rimarrà nella storia del cinema.