"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

mercoledì 21 novembre 2012

ARGO (di B. Affleck, 2012)



Ben Affleck l’attore. Ben Affleck il regista.
Dopo una carriera attoriale non particolarmente brillante ( e dopo-badate bene- un Oscar ottenuto a soli 26 anni per la sceneggiatura di Will Hunting-Genio ribelle, assieme all’amico Matt Damon), il bel ragazzone californiano si cimenta nella regia con una tale solidità e disinvoltura da eguagliare quasi il mestiere di un grande vecchio come Clint Eastwood,  macchina inarrestabile di capolavori.
Dopo Gone baby Gone e  The Town  Affleck ci propone una reale pagina di storia celata (verrà resa nota solo nel 1997) dai contorni così bizzarri da poter solo essere vera.
4 Novembre 1979, Teheran. Durante la rivoluzione islamica, alcuni militanti fanno irruzione nell’ambasciata americana prendendo in ostaggio 52 funzionari. Solo sei di loro riescono a sfuggire al sequestro  rifugiandosi nella residenza dell’Ambasciatore canadese. Ma è solo questione di tempo perché i ribelli si accorgano della loro fuga. Occorre riportarli a casa prima che accada l’irreparabile. L’allora agente della CIA Tony Mendez, esperto delle cosiddette “esfiltrazioni” ha un’idea folle: realizzare un falso film e far passare i sei come una troupe cinematografica d’istanza in Iran alla ricerca di una location esotica per la loro pellicola di fantascienza. Il titolo del falso film è Argo. E per essere credibile ha bisogno di un vero/falso copione, un vero/falso truccatore e un vero/falso produttore.
L’opera è un continuo gioco a incastro tra realtà e finzione. La pellicola si apre con un voice-over che ci descrive il contesto storico, accompagnato da una serie di disegni tipici di uno storyboard (elemento importante anche per la soluzione della vicenda). La scena dell’assedio all’ambasciata è realizzata con un continuo alternarsi di riprese cinematografiche e vere immagini di repertorio. Nella sequenza in cui viene letto il falso copione in sede di conferenza stampa, una donna iraniana legge in televisione le condizioni dei sequestratori. La telecamera che riprende il cast durante la lettura ha la stessa valenza dell’arma usata dagli iraniani per le finte esecuzioni.
Per Affleck la distinzione tra realtà e finzione è fondamentale; e lo spettatore ne deve essere ben conscio.
Alla tragedia vera degli americani, si alterna continuamente il mondo fittizio di Hollywood che convince la stampa sulla realizzazione di Argo. Questo filone parallelo ha come protagonisti il truccatore John Chambers  (John Goodman) e il produttore Lester Siegel (Alan Arkin). Persone reali (il vero Chambers vinse l’Oscar per Il Pianeta delle Scimmie) in un mondo di finzione che sanno (senza mezze misure) prendere in giro. Le loro battute ironiche e pungenti sul “pianeta Hollywood”(specie quelle di Arkin) sono da antologia.
Ma mentre da un lato si sorride, dall’altro si condivide ansie e timori dei sei americani. Se nella prima parte il film sembra quasi bloccato in una sorta di perenne attesa, dopo che i sei escono con la loro guida dall’ambasciata canadese, il film ha una virata improvvisa in cui si rimane letteralmente senza fiato. Lo spettatore segue passo per passo, attimo dopo attimo gli eventi che coinvolgono i protagonisti e con loro (assieme a loro!) trattiene il respiro. I tempi, la tensione,  gli innumerevoli primi piani e la colonna sonora di Alexandre Desplat (quattro volte candidato all’Oscar) sono perfetti. Tutto è ben calibrato da un giovane regista che sa davvero il fatto suo e che probabilmente ha realizzato il suo film migliore. Allo scioglimento finale dell’azione (davvero interminabile!) è impossibile trattenere la commozione.
Il collante tra i due principali filoni di questo film è il suo stesso regista. Ben Affleck si riserva infatti la parte dell’agente della CIA Tony Mendez (alla “regia” del folle piano), restituendo un’interpretazione pacata, forse un po’ troppo dimessa ( quasi a voler rimanere in secondo piano rispetto ai sei funzionari), ma fortemente malinconica , in sintonia con l’anima di un uomo che sente il peso della responsabilità. La responsabilità della vita di sei persone.
Un film che parla di storia quindi, ma anche e soprattutto di cinema e di come sia importante saper distinguere la realtà dalla finzione.
Si ride, si piange e si riflette con Argo.
Per me (quasi senza dubbio) il miglior film dell’anno.






martedì 20 novembre 2012

007 SKYFALL ( di S. Mendes, 2012)



 Il ventitreesimo film dedicato all’agente segreto più amato della storia del cinema è una gioia per occhi, per le orecchie, e ha un gusto “agitato, non mescolato” che i fan più accaniti non potranno non assaporare.
007 Skyfall è il terzo film dell’era Daniel Craig. Nel 2007 molti “puristi” storsero il naso alla vista di un James Bond biondo. Ma gli occhi di ghiaccio e il viso da schiaffi di Craig li ha subito conquistati. Casino Royale, diretto da Martin Campbell, ha dato un nuovo slancio al filone Bond svecchiando stile e personaggio da canoni ormai superati. Lo spettatore assiste alla nascita di un agente doppio zero alle prime armi, sfrontato e con le sue fragilità, pronto addirittura a mollare l’ MI6 per amore di una donna. Ma proprio il doppio gioco di lei lo farà diventare quel implacabile macchina da guerra che risponde al nome di “Bond, James Bond”, pronunciato solamente appena prima dei titoli di coda.
Da queste premesse, l’attesa per il secondo capitolo era inevitabilmente altissima. Ma Quantum of Solace di Marc Forster ha, per molti, deluso le aspettative. Ed ecco allora arrivare in soccorso il regista premio Oscar Sam Mendes (American Beauty), che prende le redini del terzo episodio e ne fa un omaggio così visivamente curato e pieno di riferimenti all’intera cinematografia che molti urlano già al miglior Bond di sempre.
Che veramente lo sia, io personalmente non me la sento di sottoscriverlo. Ma che questo film sia una grande prova di regia e di fotografia (Roger Deakins, una garanzia!) nonché un’ottima prova di intrattenimento, non ho dubbi.
I primi minuti sono spettacolari. Dopo una scena frenetica di inseguimento con tanto di salti mortali, tutto si arresta con Bond preso in pieno da una pallottola sparata dalla sua collega, Eve.
La “caduta dal cielo” di Bond, che dal ponte precipita nella cascata, è presto accompagnata dalla  voce suadente di Adele con la canzone omonima, Skyfall. Quello che segue è un esplosione di immagini e colori da togliere il fiato. Per un attimo sembra di precipitare sempre più giù con il protagonista, in un viaggio vorticoso ma pieno di piacere.
Il resto del film, girato in maniera impeccabile e sofisticata, è un omaggio al passato con il ritorno di personaggi e gadget che hanno fatto la storia di Bond. Ecco all’ora un giovane agente Q, responsabile del reparto tecnico dell’MI6, che gli consegna la celebre pistola Walther PPKS con “tocco personale”. Ecco Gareth Mallory, capo dell’ufficio rapporti con l’intelligence e  prossimo  M. Ed ecco la mitica Aston Martin BD5 grigio-metallizzata di Missione Goldfinger, riesumata per l’occasione in una storia dove si sottolinea che la vecchia maniera funziona sempre. Alla faccia di un James Bond con cellulare e PC.
Mendes ha quindi mischiato con cura elementi vecchi e nuovi senza mai far prevaricare l’uno sull’altro, omaggiando così la creatura di Ian Fleming e rimanendo fedele allo stile moderno del nuovo filone.
Per quanto riguarda il cast, impeccabili le performance di Craig (Bond), Ralph Fiennes(Gareth Mallory) e Judi Dench nei panni M, qui più (M)adre che mai. Buone anche quelle di Naomie Harris (Eve) e Ben Wishaw (Q). Ma chi stupisce davvero è Javier Bardem. Nei panni del cattivo di turno, l’ex agente dell’MI6 Raoul Silva, ci regala un personaggio ambiguo e crudele. Un dandy con tendenze omosessuali, profondi conflitti irrisolti e una grande rabbia che deve esplodere. Bardem gioca sapientemente con i diversi lati del suo personaggio senza mai scadere nella macchietta.
Il suo Silva ricorda un po’ il Joker di Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro. Concordo infatti con chi ritiene che Mendes abbia fatto sua la filosofia di Nolan, in particolare sulla “caduta” e “resurrezione” dell’eroe, ampliamente esplicitata ne Il Cavaliere Oscuro-Il Ritorno. Ciò che però spinge questi uomini straordinari  a risollevarsi dopo la caduta rimane, a mio parere, differente.
A prescindere da come la pensiate sul mitico James Bond, vi consiglio di non lasciarvi scappare questa perla. Non ve ne pentirete!




mercoledì 24 ottobre 2012

COGAN-KILLING THEM SOFTLY (di A.Dominik, 2012)


New Orleans, 2008. Mentre Obama e McCain, in piena campagna presidenziale, dibattono sulla crisi economica in atto, due scapestrati delinquentelli rapinano alcuni malavitosi durante una partita a poker. L’idea del mandante ( sopranominato “Lo Scoiattolo”) e quella di far ricadere la colpa sul gestore della bisca Markie Trattman, già sospettato di avere “ripulito” una precedente partita. Per recuperare il malloppo e punire i responsabili la mafia assolda Jackie Cogan, sicario cinico e spietato, con un suo “codice” molto personale.
Il succo del racconto si può riassumere in poche parole: la crisi economica colpisce anche la criminalità organizzata. E dal momento che in America anche un criminale è "solo", la ricerca del denaro giustifica ogni azione. Anche quella più ignobile.
Questo concetto è espresso nel monologo finale (che include anche un’invettiva a Thomas Jefferson) di Brad Pitt, perfetto nei ruvidi panni del misterioso killer professionista.
Era dai tempi di Fight Club che Pitt non pronunciava frasi dal sapore “cult” ( Bastardi senza gloria a parte). Parole chiare e fredde, che rimangono impresse e che danno una degna chiusura ad un film che per stile e regia ha fatto storcere il naso a più di qualcuno.
Andrew Dominik, al suo terzo lungometraggio, conferma la sua passione per il ralenti e per il gusto di dilatare al massimo sequenze e dialoghi. Caratteristiche già apprezzate ne L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, film con il quale il regista neozelandese riscrisse il genere western rendendolo più freddo e crepuscolare.
Ora con Cogan-Killing them softly,  reinventa allo stesso modo il gangster movie, adattando il romanzo Cogan’s Trade di George V. Higgins. L’azione dagli anni ’70 viene riportata ai giorni nostri e intersecata all’attuale situazione politico-economica. Il genere gangsteristico con Domink si mischia al noir e ha l’atmosfera del miglior Martin Scorsese. Freddo, brutale, che non disdegna immagini forti imbrattate di sangue e vomito ( come nel pestaggio del “povero Cristo” Markie Trattment).
Il ralenti dilata al massimo le poche ( per non dire quasi nulle) scene d’azione rimarcandone, a mio parere, l’eccellente fattura. Quello di Dominik è infatti ( e soprattutto) un film verboso, pieno di monologhi e dialoghi lunghi ma non del tutto inutili. Se non, forse, per le lunghe divagazioni di Mickey,  “collega” in crisi depressiva di Cogan.
Quella che per molti è una pellicola noiosa, a mio parere rimane una prova di regia interessante, personale e non banale. Pedante forse ( in quasi ogni scena una radio o un televisore trasmette i discorsi di Obama e McCain sulla crisi economica) ma non per questo la capacità di mantenere alta l’attenzione dello spettatore ne ha risentito.
Buona inoltre la prova degli attori. Oltre a Pitt (già Jesse James per Dominik), ruvido e glaciale al punto giusto, efficaci James Gandolfini e Ray Liotta nelle vesti del killer complessato il primo (Mickey), e in quelli del mafioso (per una volta) innocente il secondo (Trattman).
Perfettamente in parte i due rapinatori “allo sbaraglio” Scoot McNairy (Frankie) e Ben Mendelsohn (Russell).
Ottimo infine Richard Jenkins, l’autista senza nome che contatta Cogan per conto dei “capi”. Un personaggio di contorno, quasi invisibile. Un uomo sobrio, dai modi garbati  che però fa il lavoro “sporco”. Perché, come tutti gli altri personaggi, è "solo".

Guarda il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=6CR_S-dV32c


domenica 14 ottobre 2012

L'ERA GLACIALE 4-CONTINENTI ALLA DERIVA (di S.Martino e M.Thurmeier, 2012)

 

E anche il branco più strano che si sia mai visto, composto da Sid, Manny e Diego è arrivato al quarto capitolo. La saga animata creata dagli Blue Sky Studios di Chris Wedge compie dieci anni (L’era glaciale uscì nel 2002), ma il tempo sembra non avere scalfito la simpatia del pubblico per questi buffi animali preistorici ( lo scoiattolo Scrat su tutti!).
Ciò che invece, ne L’era glaciale 4-Continenti alla deriva, risente il passare degli anni è la storia. Seppur ricco di simpatiche gag, il racconto ricalca ancora il tema principale della saga: la famiglia. Concetto profondo e non scontato ma che, arrivati al quarto episodio, avrebbe meritato una maggiore evoluzione se non un totale cambiamento.
Manny è alle prese con la sua “mammutthina” adolescente Pesca. Padre protettivo e apprensivo, controlla da vicino i movimenti della figlia. Pesca, a sua volta, vuole omologarsi ai suoi coetanei ed essere notata da Ethan, un giovane mammuth di cui si è invaghita. Ma capirà che la diversità (ha per amico la talpa Louis e si comporta da opossum, come sua madre Ellie) sarà la sua forza.
Sid ritrova la sua famiglia biologica ma verrà nuovamente abbandonato. Stavolta però con lui c’è Nonnina, anche lei piantata in asso dai parenti e che con Sid condivide pazzia e intuito.
Diego infine troverà in una tigre pirata, Shira, la sua compagna ideale.
Insomma, la famiglia in tutte le sue sfaccettature, riunite in un “branco allargato” che accetta e apprezza la diversità e che protegge i suoi membri. Ma che in fondo è rimasto la stesso del primo episodio.
Anche se l’idea di base non è cambiata, ciò che rende questo film piacevole sono ancora i personaggi e le gag. Immancabile il divertentissimo Scrat,  di nuovo un  personaggio esterno al racconto ma che rimane impresso nella mente dello spettatore per la sua goffaggine e per la sua incredibile ostinazione. A sorpresa però qui un ruolo ce l’ha: nel solito tentativo di seppellire la sua amata ghianda, causa una tale catastrofe che porterà alla deriva dei continenti. Spassosissimo infatti l’inizio del film, con lo scoiattolo che precipita rovinosamente fino al centro della terra.
Altro personaggio divertente è Nonnina. L’anziano bradipo sembra capace (come il nipote Sid) di combinare solo guai; ma l’asso nella manica, risolutivo per la battaglia finale, ce l’ha lei!
Chi invece non convince è la banda di pirati antagonisti guidata  dallo scimmione Capitan Sbudella. Tutti personaggi sopra le righe ma che non colpiscono né per cattiveria né per simpatia.
La buona azione frenetica che scandisce l’avventura dei nostri conferisce al film il giusto ritmo, smorzato solo da un siparietto canoro con protagonista Capitan Sbudella, che strizza l’occhio alla Disney ma che qui risulta quasi fuori contesto.
Non mancano le citazioni cinefile: da Pinocchio a Braveheart (simpatici i piccoli roditori guerrieri con il muso dipinto di blu alla Mel Gibson); da Titanic (riferimento palese nell’affondamento della “nave pirata”) ai Pirati dei Caraibi.
Strepitosa poi la trovata finale di “Scratlantide” (potete immaginare cosa succede!) che chiude la pellicola.
In conclusione in piccolo appunto sul doppiaggio. Leo Gullotta, voce di Manny fin da L’era glaciale, è stato qui sostituito da Filippo Timi. Personalmente ho trovato la sua interpretazione un po’ troppo sopra le righe per un personaggio (un imponente mammuth) che è sempre stato presentato come malinconico, burbero e paterno. Credo che l’associazione voce-personaggio questa volta non sia riuscita. Peccato!
Sempre perfetti invece Pino Insegno (Diego) e Claudio Bisio (Sid). Quest’ ultimo riesce a restituire al suo scatenato bradipo la stessa simpatia (e la stessa voce!) di John Leguizamo, “anima” originale di Sid.
Da segnalare anche la voce graffiante di Francesco Pannofino per Capitan Sbudella. Perfetto!
 
 
 


domenica 16 settembre 2012

PROMETHEUS ( di R. Scott, 2012)


Un gigante, uno strano essere dalle fattezze umane, beve un vischioso liquido nero. Subito dopo  il suo  corpo precipita senza vita in una cascata, disintegrandosi nel fiume. Tra ciò che si disperde nell’acqua, qualcosa ha una forma elicoidale. Proprio come il nostro DNA.
Questo il misterioso inizio di Prometheus, l’ultimo film di Ridley Scott che, a trenta-tre anni da quel capolavoro che fu Alien, riprende in mano il filone horror-fantascientifico che egli stesso ha contribuito a fondare. Ma quello che si presenta come il prequel/spin-off del terrificante alieno nero, dallo stesso si allontana. Perché la perfetta congiunzione astrale che nel 1979 permise la magia, non si è ripetuta.
2089. Gli archeologi  Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) e Charlie Holloway (Logan Marshall-Green) scoprono in una grotta della Scozia una pittura rappresentante una mappa stellare. Avendo riscontrato lo stesso disegno in altre civiltà di differenti epoche, i due scienziati interpretano la mappa come un invito dei nostri creatori (gli “Ingegneri”) a raggiungerli. Tre anni dopo sono a bordo della nave spaziale Prometheus, diretti proprio verso la luna indicata degli Ingegneri. L’astronave ha un equipaggio di diciassette persone tra cui la guida della spedizione Meredith Vickers (Charlize Theron),  l’androide David (Michael Fassbender) e il capitano Janek (Idris Elba). Lo scopo primario di quest’uomini è dare una risposta a quelle domande che da sempre assillano l’umanità: chi siamo, chi ci ha creato, e perché. Ciò che troveranno su quella lontana luna capovolgerà le loro priorità. E il loro “Prometeo”, il creatore, non sarà quello che si aspettavano.
La tematica scelta da Scott è ambiziosa. Per tradurla sullo schermo ha voluto con sé lo sceneggiatore di quel fenomeno televisivo che è stato Lost: Demon Lindelof. E questo, forse, è stato il primo passo falso del regista britannico. A suo agio con trame intricate a sfondo filosofico, Lindelof ha , in questo caso, confezionato una storia semplice che presenta però diversi buchi. Ma che soprattutto, non soddisfa uno spettatore  coinvolto e interessato ai  diversi spunti di riflessione che la sceneggiatura propone. La sensazione che si ha, alla fine della visione, è che ci debba per forza essere un seguito che dia una risposta soddisfacente ai quesiti posti. E il capitolo successivo non può essere Alien. Da esso infatti film si allontana;  ma non certo per ambientazione, atmosfera, ritmo e similitudini tra i protagonisti.
Prometheus infatti immerge senza dubbio lo spettatore nel mondo fantascientifico e cupo di Alien. La pellicola ricalca il film del ’79 riproponendone i ritmi, i silenzi e la tensione.
Come Ripley e i suoi  compagni, anche l’equipaggio del Prometheus viaggia addormentato nelle capsule criogeniche. Anche qui è presente un androide dai comportamenti ambigui, che risponde agli ordini di un oscuro burattinaio. Noomi Rapace poi, nei panni della protagonista, rasenta la mimesi con la giunonica Sigourney Weaver. Ancora una volta è la forza del corpo femminile ad avere le risorse per contrastare la minaccia aliena. Un corpo, in cui convivono perfettamente forza, androginia e sensualità.
Ma è proprio sul piano dei personaggi che Scott fa il suo secondo passo falso. Sia i protagonisti che i comprimari mancano di una personalità ben delineata. La fede che possiede Elizabeth e che fino alla fine non perderà mai, avrebbe meritato un maggiore approfondimento,  in concomitanza con la sua sterilità ( capace però di generare qualcosa di mostruoso). Appena accennati i profili degli altri personaggi. Tra loro , alcuni  appaiono quasi inutili alla fine della trama, come quello di Charlize Theron: perfetta nei panni della glaciale guida, ma non così indispensabile al racconto.
Chi invece non delude e rappresenta il vero cardine attorno al quale ruota la storia è l’androide David. Suoi i dialoghi migliori (che pure ci sono!). Egli ha qualcosa in più rispetto ai suoi compagni: la consapevolezza che la risposta alla domanda più importante possa rivelarsi una grande delusione. David ha il volto  di Michael Fassbender che gli regala il giusto mix di freddezza, ambiguità e stupore.
In conclusione, proprio per le varie similitudini con il primo Alien, ritengo che Prometheus sia da considerare più un omaggio che un vero prequel. I fan più puri della creatura probabilmente rimarranno delusi, ma non potranno negare la forza visiva ( anche in 2D!) del film. Stile di regia e fotografia sono impeccabili. Sequenze che rimangono impresse, come quella in cui David è immerso in un enorme ologramma raffigurante una mappa stellare in cui la Terra è cerchiata.
Un film senz’altro epico, che di Alien ha il sapore. Ma non la magia.
 
 
 

sabato 15 settembre 2012

RIBELLE. THE BRAVE ( di M. Andrews, 2012)



Per qualche istante, mentre ero immersa nelle Highlands scozzesi e nelle folta chiama rossa  di Merida, mi è sembrato di tornare bambina. Sarà per l’atmosfera magica o per le canzoni (che in italiano sono interpretate dalla fulva Noemi) ma il tredicesimo film Pixar  mi ha un po’ ricordato i lungometraggi Disney anni Novanta (La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Il Re Leone). Ma con qualcosa in più.
Ribelle. The Brave  si presenta fin da subito come una fiaba tradizionale che, forse, sarebbe piaciuta tanto allo zio Walt. Ma l’illusione non è totale. Anche se si percepisce un retrogusto di già visto, quell’innovazione che la Pixar ha portato nel mondo dell’animazione, c’è. Anche se leggermente velata.
Merida,  figlia del Re scozzese Fergus,  non è la principessa che ci si aspetta. Alle buone maniere e al matrimonio preferisce tirare con l’arco e cavalcare a perdifiato nella foresta.  E’ ribelle e coraggiosa. A tal punto dal voler cambiare il proprio destino. Ma sulla sua strada c’è un grosso ostacolo: la madre Elinor.  In perenne conflitto con la Regina, che la vorrebbe perbene e disposta a prendere marito per il bene del regno, Merida si sentirà costretta a chiedere aiuto ad una strega per indurre la madre a cambiare idea sulla sua sorte. Ma le conseguenze del suo gesto saranno del tutto inaspettate.
Quella di Merida è la storia di una teenager che cerca di trovare se stessa. E come tutti i ragazzi di quell’età è piena di orgoglio. E sarà proprio il suo orgoglio a metterla sulla cattiva strada.
Senza svelare troppo, sottolineo che il punto focale di questa storia non è (come si potrebbe pensare) la banale emancipazione di una ragazza dai genitori o da un mondo retrogrado e maschilista, ma il difficile rapporto tra madre e figlia. Un eterno conflitto in cui tutte possiamo riconoscerci e che tocca il cuore. Ecco, dove chi scrive, vede la mano geniale dello studio fondato da John Lasseter e Steve Jobs:  nella capacità di commuovere; di creare storie che catturano l’anima di adulti e bambini. Dote che la Disney ( un tempo regina dell’intrattenimento per famiglie)  aveva dimenticato a favore di tecniche più raffinate, ma accompagnate da sceneggiature vuote ( ma che con Rapunzel - che con Merida ha molte analogie- sembra essere tornata agli antichi splendori).
Se le atmosfere risentono di influenze tipicamente disneyiane, non si può non notare un umorismo più pungente degno di Shrek. Anche la Pixar, in questo caso, ha fatto tesoro dell’insegnamento Dreamworks, che ha fatto dell’umorismo la sua bandiera (da Shrek a Kung Fu panda; da Madagascar a Megamind). La parte “buffa” qui è relegata al mondo maschile. Lord scozzesi e  giovani pretendenti sono rappresentati come degli inetti, a sottolineare la connotazione fortemente femminile dell’opera. Il coraggio è donna; quello di Merida e anche di Elinor.
Inutili forse invece  i “siparietti” dei tre fratellini di Merida. Simpatici, ma niente di più.
Lo humour rende l’opera leggera, senza però inficiare i momenti epici del film. Esso è un miscuglio di generi che non cozzano l’uno con l’altro ma che hanno anzi  un loro spazio connotato di senso.
Dove poi la sottoscritta vede cristallinamente ancora la Pixar è nella tecnica. Meravigliosi i fondali che ricreano le atmosfere scozzesi. Dai laghi, alle verdi montagne; dalla fitta nebbia ai castelli medioevali. Splendidi poi i capelli di Merida: rossi, forti, ribelli. Proprio come lei. Sembra quasi di toccarli e sentire sulle dita ogni singolo riccio.
Insomma, Ribelle. The Brave è un cartoon ( se ancora si possono chiamare così) godibile, con una storia non scontata adatta ad adulti e bambini.
Ammetto però che è difficile non avere qualche perplessità. Merida e i suoi ricci  non raggiungono gli apici toccati dalla Pixar in tempi addietro. Il lungometraggio animato diretto da Mark Andrews ( che ha sostituito in corsa Brenda Chapman) non sorprende come Monsters & Co o Ratatouille; e non commuove come UP, Toy Story 3 o Wall-E.
Che in casa Pixar ci sia un po’ di crisi si percepisce anche dalla scelta di fare sequel (Cars 2), prequel ( Mosters University) o di rieditare vecchi successi in 3D (Alla ricerca di Nemo).  
Ma personalmente ritengo che quest’ultima fatica non debba essere duramente stroncata. Perché la luce di Luxo  ( la famosissima lampada da tavolo, da sempre logo della Pixar), per me, brilla ancora. Anche nel forte temperamento di Merida.
Brilla  anche ( e soprattutto) come La luna, il cortometraggio che viene proiettato prima di Ribelle. The Brave, diretto dal nostro italianissimo Enrico Casarosa e presentato quest’anno agli Oscar.
Un vero piccolo gioiello!
 
 
 
 


mercoledì 5 settembre 2012

IL CAVALIERE OSCURO. IL RITORNO (di C. Nolan, 2012)


Christopher Nolan è un regista cerebrale. Il suo è un cinema psicologico, di pensiero, che fonda le sue radici nel mondo reale anche quando sembra trasportarci in mondi “paralleli”. Quello angosciante di una memoria da ritrovare (Memento); quello competitivo e "magico" del XIX secolo (The Prestige); quello intricato del sogno (Inception); o quello corrotto di Gotham City.  
Ed è proprio con questo realismo che egli si è approcciato a Batman, dando il via, nel 2005, a quello che è stato il reboot del personaggio già plasmato con successo da Tim Burton.
Con Batman begins, Nolan dichiarò ufficialmente di voler introdurre l’Uomo Pipistrello in un contesto reale e di approfondire l’aspetto psicologico dell’uomo (Bruce Wayne) e dell’eroe (Batman). Questo file-rouge ha percorso l’intera saga, iniziata appunto con Batman Begins (2005), proseguita con Il Cavaliere Oscuro (2008) e conclusasi ora con Il Cavaliere Oscuro. Il Ritorno.
Sono passati otto anni dalla morte di Harvey Dent e Batman, assente dai cieli di Gotham, è ancora l’indiziato numero uno. Il Cavaliere Oscuro ha scelto l’esilio per permettere al commissario Gordon di attuare il decreto Dent e ripulire Gotham dalla criminalità. Ma anche Bruce Wayne è un fantasma. Invecchiato e con una gamba malandata, il potente miliardario vive da eremita nel suo castello, accudito dal fido maggiordomo Alfred. Ma, come gli rivela la “felina” Selina Kyle, “sta arrivando una tempesta” e Batman dovrà fare il suo ritorno. La minaccia è incarnata da Bane, un terrorista dall’incredibile forza bruta, il cui viso è nascosto da una terrificante maschera degna di Hannibal Lecter. La sua missione? Indurre alla rivolta le fasce più deboli e i criminali di Gotham contro gli abitanti più agiati.  Un’illusione …perché l’intento finale è quello di  distruggere con una bomba nucleare (creata grazie ad un reattore di fusione destinato all’energia pulita, rubato alla Wayne Enterprises) la stessa città di Gotham. Bane è l’attuale capo della Setta delle Ombre  e intende portare a termine il piano del defunto Ra’s al Ghul.
Il film, in senso temporale, segue gli eventi narrati ne Il Cavaliere Oscuro, ma i maggiori contatti li ha con il primo capitolo della saga, Batman Begins. Tornano infatti la Setta delle Ombre e Ra’s al Ghul, prima mentore e poi nemico dei valori difesi da Batman. La minaccia per Wayne arriva di nuovo da chi lo aveva aiutato a far nascere il “simbolo” del pipistrello. Come in un cerchio non ancora chiuso, Bruce dovrà di nuovo provare la paura e il senso di colpa per uscire definitivamente dall’oscurità. Ecco allora il secondo punto d’incontro con Batman Begins: Bruce Wayne, l’uomo dietro la maschera. Un eroe sì, ma tormentato, mosso soprattutto da rabbia che ha imparato a domare, ma mai del tutto a cancellare.
Come sottolineato nel monologo finale de Il Cavaliere Oscuro, Batman è colui che può sopportare ( anche una colpa non sua, come la morte di Harvey Dent), ma le ferite che riporta (quelle dell’anima) non si rimarginano mai. Dopo la decisione di rivestire i panni di Batman (scelta ostacolata da Alfred che teme la perdita definitiva di colui che ritiene ormai suo figlio), l’eroe cadrà; ma dovrà rialzarsi. Bane infatti scaraventa Bruce in una prigione sotterranea, dove l’unica via di fuga è costituita da un profondo pozzo che sale in superfice. Il parallelismo con il pozzo nel quale il piccolo Bruce cadde da bambino, e dove nacque la sua paura per i pipistrelli, è chiara. Dal pozzo è nato Batman e dal pozzo risorgerà. Ma la luce che alla fine troverà, questa volta sarà diversa: in più, avrà in sé la speranza.
Oltre al profilo psicologico in questo terzo capitolo ritroviamo anche l’ ambientazione realistica. Gotham City può essere una qualunque metropoli americana, come New York o Chicago. E  le minacce affrontate da Batman (terrorismo, crisi economica, rivolte sociali) trovano riscontro nella nostra triste attualità.
Il film offre poche scene d’azione (ma non prive di spettacolarità, come in quella d’apertura, girate ancora una volta in IMAX) privilegiando un racconto che si arricchisce di numerosi “spiegoni”; necessari, e che comunque  non appesantiscono lo scorrere degli eventi. La capacità di Nolan infatti, di non far scemare la tensione rimane intatta.
Confermato l’ottimo cast dei due precedenti episodi: Christian Bale (Wayne/Batman), che da L’uomo senza sonno ha viste finalmente riconosciute le sue capacità attoriali con un Oscar come miglior attore  non-protagonista nel 2011; Gary Oldman (Commissario James Gordon) che invece, inspiegabilmente, un Oscar non l’ha ancora ottenuto; gli impeccabili Michael Caine (Alfred Pennyworth) e Morgan Freeman (Lucius Fox). Altrettanto di rilievo le new entry: i già “noleniani” Tom Hardy (Bane), Marion Cotillard (Miranda Tate) e il giovane talento Joseph Gordon-Levitt (John Blake). Da segnalare anche Matthew Modine nei panni del vice commissario Peter Foley. Ma l’applauso va ad Anne Hathaway. A lei è toccato l’ingombrante ruolo di Catwoman (anche se nel film non viene mai chiamata così!), ovvero la ladra Selina Kyle. La precedente “gatta” di Michelle Pfeiffer era rimasta nei cuori dei fan per carisma e sensualità. Difficile eguagliarla, ma la Hathaway ha superato la prova a pieni voti, dimostrando di potersi calare in ruoli molto diversi.
Illustri infine i camei di Liam Neeson e Cillian Murphy che riprendono i ruoli già assunti nei precedenti episodi (rispettivamente Ra’s al Ghul e Jonathan Crane).
Anche se, personalmente, la mia preferenza rimane per Il Cavaliere Oscuro del 2008, ritengo che l’ultima fatica di Nolan sia un ottimo film, epico quanto basta, interessante per trama e realizzazione. Un’opera da vedere tutto d’un fiato, nonostante la lunghezza ( 2 ore e mezza abbondanti!).
Una degna conclusione, per una saga che rimarrà nella storia del cinema.
 
 
 

sabato 21 luglio 2012

TAKE SHELTER ( di J. Nichols, 2012)


Curtis LaForche  è un uomo qualunque. La sua è una vita tranquilla, dedita al lavoro e alla famiglia. Ma la sua serenità è ben presto minata da qualcosa di terribile e misterioso. Il suo sonno è ricorrentemente disturbato da angoscianti incubi che iniziano sempre con l’arrivo di un tremendo temporale. Nella mente di Curtis si insinua il pensiero che quella “tempesta perfetta” possa davvero abbattersi sulla sua casa e mettere in pericolo la vita della moglie Samantha e della sua bimba, Hannah, affetta da sordità. Decide perciò di costruire un rifugio anti-uragano. L’ostinazione con la quale persegue la sua missione logora però i legami con amici e colleghi, ma soprattutto mette a dura prova il rapporto con la giovane moglie.
Jeff Nichols (considerato uno tra i più promettenti giovani registi) ci regala una pellicola che, fin dalla prima inquadratura, coinvolge appieno lo spettatore, risucchiandolo in un vortice di paura, tensione e mistero; emozioni che tormentano la mente del protagonista. Lo spettatore vive con lui la sua tragedia. Il terrore per quei tuoni e per quella strana pioggia scura; la paura per la propria figlia; il timore di soffrire degli stessi disturbi (la schizofrenia) della propria madre. Curtis ha infatti la consapevolezza di poter essere malato, ma l’ossessione di costruire un rifugio per la propria famiglia è più forte di qualsiasi dubbio (“Lo devo fare”, dice sicuro alla moglie). E proprio il dubbio tra malattia e premonizione pervaderà tutto il film. Fino all’enigmatico finale, dove però si asserisce una verità importante: quella che spesso il vero rifugio, il vero riparo dai pericoli del mondo, si trova solo in chi si ama. Solo una moglie, una figlia, oppure un amico possono comprendere i tuoi timori  e condividerli con te. Percepirli, vederli, viverli allo stesso modo, e non farti più sentire solo.
Scritto dallo stesso Nichols, Take Shelter è un piccolo gioiello di tecnica e capacità recitativa.
La fotografia di Adam Stone è perfetta. Essa rende la profonda provincia americana (siamo in una piccola cittadina dell’Ohio) ancora più vasta e sconfinata, a sottolineare quanto l’uomo (in questo caso Curtis) sia piccolo e impotente di fronte alla forza della natura.
C’è l’ 11 settembre  nella diffidenza di Curtis verso il suo prossimo; e c’è l’uragano Katrina in quel cielo minaccioso. Le più intime paure dell’americano medio (e dell’Occidente) tutte racchiuse nel corpo sì imponente, ma schiacciato e lacerato, di Michael Shannon. L’attore statunitense ( davvero in grande spolvero) ci restituisce una straordinaria interpretazione , facendo di Curtis una maschera tragica dei nostri tempi. Ad affiancare Shannon, una brava Jessica Chastain (già vista quest’anno in The Help), nei panni della moglie-coraggio che resta accanto al marito. Splendida anche la caratterista Kathy Baker (Edward mani di forbice, Il Club di Jane Austen), interprete della madre schizofrenica. Poche immagini e parole le sue, ma che rimangono impresse.
Lo stesso si può dire del film. Immagini ripetitive ma mai banali e dotate di senso; pochi dialoghi ma profondi, essenziali, sottolineati da una musica stridente ma mai completamente disturbante. Effetti speciali minimi ma che ti fanno davvero sentire dentro il film ( altro che 3D!). Assieme a Curtis infatti, sembra di sentirlo quel vento forte sulla faccia, o quelle strane gocce di pioggia sulla sua mano.
Un film raro.




22 Luglio 2012: Recensione pubblicata anche sul sito www.binarioloco.it

giovedì 19 luglio 2012

BIANCANEVE E IL CACCIATORE ( di R. Sanders, 2012)


Labbra rosso sangue, chioma di nero folgore, cara,cara Biancaneve dammi il tuo cuore”.
Sarà per le formule magiche in rima… oppure per le tinte pastello alternate al  grigio tetro tipico del genere dark… ma mentre guardavo questo film mi tornavano spesso alla mente le immagini acquerello di quel primo film della Disney datato 1937:”Biancaneve e i sette anni”.
Sembrerà strano ma il primo lungometraggio di Rupert Sanders ha più tratti in comune con quel rivoluzionario cartoon che non con il recentissimo “Biancaneve” di Tarsem Singh, uscito appena il 4 aprile 2012. Perché? Perché in entrambi i Grimm sono ben presenti.
La più famosa e amata fiaba, nata dalla penna dei Fratelli di Hanau,  trova un ennesimo adattamento  in cui si cerca di coniugare la fiaba originale con quella “cartooniana” che tutti conosciamo. E’ risaputo che i Grimm non disdegnavano particolari macabri nelle loro fiabe, ripulite poi nelle versioni anglosassoni dell’800 ma soprattutto dal “purismo” Disney. Ma lo stesso zio Walt, con il film del 1937, era consapevole sia dell’importanza del lieto fine sia che le fiabe per bambini devono fare paura. Ecco allora una Strega brutta ed inquietante (il male deve sempre essere ripugnante) e un fitto bosco tenebroso per Biancaneve. E la fanciulla che corre atterrita nella foresta oscura del film di Sanders mi ha proprio ricordato la stessa sequenza del film Disney. Visivamente di grande effetto entrambe.
Di fiabesco e disneyano c’è poi il classico bacio che risveglia la “bella”, avvelenata dalla mela. Ma al classico Principe Azzurro ( che pure c’è) si preferisce modernizzare  la storia (questo, di fondo, l’intento del film)  con un cacciatore vedovo e dedito all’alcool che farà di Biancaneve una valorosa guerriera. Anche la Principessa dalla pelle bianca, le labbra rosse e i capelli colore dell’ebano, (che viene presentata come una novella Giovanna D’Arco profondamente spirituale e pronta alla battaglia) nasconde in realtà una moderna teenager,  con tanto di pantaloni attillati sotto l’ampia gonna.
Respiriamo ancora i Grimm nei paesaggi oscuri, nel Troll che aggredisce il cacciatore, nei corvacci neri, “struttura intima” della perfida Regina Ravenna (in originale Raven, cioè “corvo”), matrigna di Biancaneve, pronta a tutto per distruggere colei che può sottrarle lo scettro di più bella del reame. Come nelle fiaba dei teutonici fratelli, ella mantiene la sua bellezza privando della giovinezza le fanciulle in fiore del suo regno. E brama il cuore puro di Biancaneve; della “prescelta”, dell’unica in grado di annientarla per sempre.
Disney invece ritorna palesemente  nel mondo sotterraneo dei nani (qui otto!) pieno di fate e teneri animaletti, pronti ad inchinarsi davanti alla loro Principessa.
L’atmosfera delle scene qui ambientate però sembra quasi estranea al film, a evidenziare l’indecisione del regista tra fiaba tradizionale e dark fantasy. Gli elementi fin qui descritti infatti non sembrano mai trovare un punto d’incontro. L’opera non riesce a mantenere un filo coerente e persino il racconto non ha il coraggio di approfondire i caratteri e i legami dei propri personaggi. Il rapporto tra Biancaneve e il Cacciatore rimane in sospeso, a suggerire un triangolo amoroso al quale si aggiunge William, il “presunto” Principe Azzurro. E anche il profondo legame (“Ho visto ciò che vede”, asserisce la Principessa) che unisce  Biancaneve a Ravenna rimane in superfice, chiudendosi poi frettolosamente nel prevedibile finale.
Va comunque dato il merito a  Sanders di aver confezionato una buona pellicola di intrattenimento con notevoli effetti visivi. E inoltre, alcuni espedienti narrativi interessanti ci sono. Come le ragazze sfregiate per evitare il furto delle loro giovinezza  da parte di Ravenna; o il subdolo “travestimento” scelto dalla stessa matrigna per indurre Biancaneve a mordere la “famigerata” mela avvelenata.
Per quanto riguarda il cast, Kristen Stewart (star della saga di Twilight) è perfetta come “dark Snow White” ma la sua interpretazione, fatta soprattutto di sguardi, è piuttosto debole. La stessa cosa vale per Chris Hemsworth (il Cacciatore)  che, nonostante sia passato dal martello all’accetta, rimane un Thor dai pochi (se non nulli) sorrisi e una recitazione mono-espressiva. Peccato per i nani, tra le cui fila spiccano nomi come Bob Hoskins, Ian McShane e Nick Frost. I loro personaggi non sono stati sfruttati come meritavano.
Chi invece non delude ( e non avevo dubbi!) è Charlize Theron nei “neri” panni della regina Ravenna. Magnetica, crudele e bellissima come solo lei poteva essere. Occhi penetranti, fisico statuario e un’interpretazione piena di sfumature ma mai sopra le righe.
Infine, segnalo come il misterioso ( e lunghissimo!) piano sequenza finale possa dare adito ad un possibile sequel. Ma…e lo chiedo a voi….per la più nota delle fiabe che per tradizione inizia con un “C’era una volta…” , può esserci un “to be continued…”??