"Siamo legati ai film come ai nostri migliori sogni". Leo Longanesi

martedì 19 giugno 2012

MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO ( di S.Daldry, 2012)


Tempo fa vidi un documentario sui parenti delle vittime dell’11 Settembre. Dopo “il giorno più brutto”, le televisioni erano invase da immagini di uomini e donne che si lanciavano nel vuoto da quelle altissime torri. In quelle sagome sfuocate, sospese nell’aria, mogli, mariti, figli, madri, riconoscevano dolorosamente il proprio caro.
Ed è proprio con le immagini di un uomo che cade nel vuoto, che inizia l’ultimo lavoro del regista Stephen Daldry.
Oskar Schell (Thomas Horn) è un ragazzino speciale. Intelligente, curioso, è sempre pronto ad affrontare le sfide lanciate dal padre Thomas (Tom Hanks). Il bambino infatti ha problemi relazionali ( si sospetta che abbia la sindrome di Asperger) e il padre, spronandolo sempre a cercare qualcosa, lo induce ad entrare in contatto con gli altri e a non avere paura. Ma quando Thomas perderà la vita nell’attentato alle Torri Gemelle, Oskar sentirà di dover colmare il vuoto lasciatogli dal padre con una nuova ricerca, una nuova avventura. Casualmente troverà una chiave tra i suoi effetti personali. La disperata ricerca per capire che cosa essa apre, porterà Oskar ad incontrare tante persone diverse che, come lui, sono dei “sopravvissuti” della vita.
Il film è tratto dal romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer (autore anche di Ogni cosa è illuminata). Chi scrive purtroppo non ha letto il libro ma la sensazione (riscontrata anche da altri) che le tematica fosse qualcosa di veramente difficile da trasferire sullo schermo l’ho avuta anch’io. Basilari, in questo racconto, sono i dialoghi. Le parole dette e non dette. Il rapporto tra Oskar e i suoi genitori è basato su parole “sospese”. Il padre voleva che il figlio scoprisse da solo le cose. E dopo la sua morte, la madre ( una brava e bella Sandra Bullock) protegge con i silenzi il piccolo Oskar. Ma i pensieri e le sensazioni di questo bambino ferito sono così forti da non poter essere taciute. A volte esplodono in logorroici monologhi che, nonostante  la bravura del giovane attore, appaiono purtroppo artefatti e stonati. Lo stesso vale per i dialoghi tra Oskar e le persone che incontra nella sua ricerca. Il modo in cui questi adulti si rapportano con un bambino di 9 anni non risulta realistico. E tutto questo strano modo di esprimersi nella relazione con l’altro rende il film, in alcuni momenti, noioso e un po’ destabilizzante.
Unico spiraglio di luce lungo questo caotico tunnel è la straordinaria interpretazione di Max Von Sydow (nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista). L’attore prediletto di Ingmar Bergman (Il settimo sigillo), incarna i panni de “l’inquilino”, il misterioso personaggio ospitato in casa della nonna di Oskar. La grande curiosità di quest’ultimo li farà incontrare e questa “buffa” coppia ( un ragazzino intelligente ed ostinato e un uomo anziano che non parla) condividerà l’avventura della chiave. L’inquilino muto, che si esprime solo attraverso la scrittura, incarna forse al meglio una storia che sulla carta si sviluppava con discorsi e pensieri complessi, ma che sullo schermo avrebbe dovuto forse abbandonarsi di più alle immagini, prediligendo dialoghi più concisi e diretti, come i “pizzini” proprio di Max von Sydow.
Il film (seppur in maniera retorica) commuove. Impossibile non empatizzare con il piccolo Oskar. La storia di un bambino che cerca “la chiave” per avere un ultimo “dialogo” con il padre, tocca il cuore. Come anche un genitore che insegna al suo piccolo a non avere paura. A lanciarsi nel vuoto, a volare ed essere libero.
Oltre a  quella di Max von Sydow, anche le altre interpretazioni non deludono (comprese le piccole partecipazioni di Tom Hanks e Viola Davis). Chi delude invece è Daldry ( indubbiamente legato alla sceneggiatura di Eric Roth, Oscar per Forrest Gump). Dal regista di Billy Elliott, The Hours e The Reader-A voce alta, mi aspettavo una maggiore  capacità di tenere le redini di una storia, sì difficile, ma che comunque era appieno nelle sue corde di regista di commoventi drammi. E che invece gli è sfuggita un po’ dalle mani. Peccato!



giovedì 14 giugno 2012

MARILYN ( di S. Curtis, 2012)


Dolce, sensuale, timida, sexy. Un po’ angelo luminoso e un po’ diavolo tentatore. La diva, la dea. In una parola….Marilyn.
Norma Jeane Baker, in arte Marilyn Monroe, è stata (e rimarrà sempre) la più grande diva di Hollywood. Oggetto del desiderio per i fan che ancora oggi la venerano, fu invece croce e delizia per coloro (attori e registi) che con lei dovevano lavorare. Noti ormai i racconti fatti dai “colleghi” su come i continui ritardi agli appuntamenti sul set  e la dipendenza da alcol e droghe dell’attrice, comportassero grandi difficoltà per le riprese. Ma in tutti loro Marilyn ha lasciato un segno indelebile. Non ultimo Laurence Olivier, grande attore e regista britannico, che nel 1956 la diresse e recitò al suo fianco nel film “Il principe e la ballerina”.
Il primo lungometraggio cinematografico del regista Simon Curtis racconta proprio i retroscena della realizzazione di quel film. Ma, a discapito del titolo italiano, non aspettatevi un film biografico sulla bionda e procace attrice americana. L’opera è dedicata solo a quel particolare periodo della sua vita (aveva appena sposato lo scrittore Arthur Miller). Ma soprattutto, ella rivive grazie al ricordo e  al giovane sguardo di Colin Clarke.
Fresco di studi e amante del cinema, Colin (Eddie Redmayne), grazie alla sua grande determinazione, diventa il terzo assistente alla regia di  Laurence Olivier. Disposto a fare qualsiasi cosa per stare vicino ai suoi idoli, si ritroverà presto a tenere compagnia alla fragile e malata Marilyn ( dal quale è ammaliato a tal punto da trascurare una nascente storia d’amore), ancora più provata dalla partenza del marito Arthur Miller (tornato in patria dopo la breve luna di miele) e dalle pressioni subite sul set da parte di un Olivier sempre più meno incline a sopportare i “capricci” della diva.
Il film è tratto dai diari dello stesso Clarke intitolati “The Prince, the Showgirl and me” e “My week with Marilyn” (da cui il più appropriato titolo originale) e pubblicati nel 1995. Ed è proprio attraverso il suo sguardo ingenuo, sognante e innamorato che noi spettatori scopriamo Marilyn. Una donna (prima che un’attrice) fragilissima, desiderosa d’affetto, esageratamente insicura nonostante le conferme datele da suo enorme successo. Capace, sul set, di straordinarie doti interpretative scaturite dal suo istinto, ma che il giorno seguente non riesce a trovare il coraggio di presentarsi di nuovo di fronte alla cinepresa. Imbottita di farmaci per dormire, Marilyn è spesso soccorsa dai suoi collaboratori. Gli unici momenti di spensieratezza ( dove esce tutta la Monroe bambina che desidera solo essere amata) li passerà con Colin, che per distrarla un po’, le farà anche visitare Londra. E quella settimana insieme a lei rimarrà scolpita per sempre nel suo cuore.
Impossibile non identificarsi con il punto di vista del giovane Clarke. Come lui, viene voglia di proteggere quella creatura eterea ma fragile, che sembra pronta a piegarsi al primo soffio di vento. Vien voglia di abbracciarla e dirle che domani andrà tutto bene.
Ci si innamora di lei. Ma attenzione.. non di Marilyn… ma di Michelle Williams che interpreta Marilyn. La Williams infatti non imita la Monroe ma ne restituisce appieno il fascino, facendoci provare le stesse emozioni che probabilmente avremmo sperimentato con la vera Marilyn. E questo, ritengo, fa della Williams una straordinaria giovane interprete, giustamente premiata con il Golden Globe.
Sempre bravo anche Kenneth Branagh (quinta candidatura agli Oscar), un perfetto Laurence Olivier in continuo conflitto con la bionda diva (oltre che per i continui ritardi sul set, anche per il metodo recitativo) ma che dalla stessa, alla fine, verrà conquistato.
Da segnalare inoltre le presenze di Judie Dench (una garanzia!) e Emma Watson ( ex Hermione della saga di Harry Potter).
Il film di Curtis si presenta nostalgico; leggero e delicato come la sua principale protagonista. Si entra in punta di piedi in quello stralcio di vita dell’attrice più desiderata di sempre, venendo poi completamente travolti dal suo fascino senza tempo.
Per ricordarla, a cinquant’anni dalla sua prematura morte, mi è sembrato davvero un bel modo.



lunedì 4 giugno 2012

CHRONICLE (di J.Trank, 2012)


Nel panorama dei “found footage film”, cioè delle pellicole realizzate in modo che le immagini sembrano girate dagli stessi protagonisti con videocamera a mano, le idee sembravano ormai esaurite. Ma ecco invece affacciarsi un’opera che amplifica l’uso delle “finte riprese reali” rendendolo interamente funzionale al racconto.
Scritto e diretto dai giovanissimi (27 anni!) Max Landis e Josh Trank, il film narra le straordinarie “gesta” di tre ragazzi che, entrati in contatto con un misterioso blocco luminoso, acquistano improvvisamente il potere della telecinesi. Andrew, Matt e Steve impareranno presto a controllare i loro poteri potenziandone l’effetto. Spostano oggetti sempre più grandi, creano campi magnetici e arrivano addirittura a volare.
 Da grandi poteri, derivano grandi responsabilità”, ci ha insegnato Spiderman. Ma se il potere cade nelle mani sbagliate, le conseguenze possono essere devastanti. A differenza di Matt e Steve, Andrew è un ragazzo fragile, piegato da una situazione familiare drammatica ( la madre gravemente malata e il padre manesco ed alcolizzato) e alla continua ricerca di affermazione e accettazione. In lui i poteri sono più forti, armato com’è di rabbia e disperazione. Perderà il controllo, non distinguerà più il bene dal male ed entrerà in una spirale di autodistruzione che avrà il suo culmine nel delirio di onnipotenza finale.
Oltre ad Andrew, protagonista assoluta di questo racconto è la telecamera. Essa inizialmente rappresenta lo scudo dietro la quale il fragile ragazzo si nasconde e si protegge. La storia ci viene raccontata attraverso di lei, la quale combacia perfettamente con lo sguardo timido e impacciato di Andrew. Ma quando il ragazzo entrerà in possesso della capacità di muovere gli oggetti, tutto cambierà. Andrew passerà da spettatore passivo ad attore attivo, a creatore principale delle sua stessa storia. Controllerà la cinepresa non più nascondendosi dietro essa, ma standole davanti come per affermare con forza che lui, e solo lui, è fautore delle propria vita. La telecamera fluttuante (perché controllata non più dalle mani ma dalla mente di Andrew) filmerà le “avventure” di questi ragazzi in maniera diversa, sempre più sicura e implacabile. E’ famelica e  crudele, come lo sguardo (da “predatore”) di Andrew.
Se la trama a molti sembrerà “già vista”, ciò che rende originale Chronicle è proprio l’uso “finto-dilettante” della cinepresa che, a differenza di altre opere del genere, diventa un protagonista attivo invece che un semplice mezzo visivo finalizzato alla creazione di tensione e mistero.
Il film inoltre può facilmente inserirsi nel filone “super-eroistico alternativo” (da Kick-Ass al recente e sorprendente Super, passando per Watchmen) dove si preferisce mostrare il lato oscuro dell’eroe piuttosto che il suo alto senso etico e morale.
Ribadendo che la pellicola è interessante, è innegabile però l’incapacità del regista di mantenere alta l’attenzione. Il film (come gli altri del genere “found footage) si propone come un horror-thriller ma non riesce a mantenere costante la tensione nello spettatore. Peccato, a mio modesto parere, trascurabile per uno sceneggiatore (Landis) e un regista (Trank) giovani che possono solo migliorare. Da tenere d’occhio.
Lo stesso vale per gli semi-sconosciuti interpreti. In particolare per Dane DeHaan, anima e occhi azzurri (spettrali!) di Andrew. Convincente.